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Arrivederci, amore
Silloge dolente e
pura, questa che Giovanni Piazzi emiliano residente a Torino, tenente
colonnello a riposo, libero pensatore e autore di testi speculativi, oltre che
di due recenti raccolte di poesia – dedica a Mariagrazia, l'amatissima moglie
scomparsa. Densa d'interrogativi, di consapevolezza, di strazio misurato e
vigilato, ma pur sempre strazio.
Un dono postumo che non risarcisce l'amore
perduto, ne addolcisce il dubbio di non essere sempre stato all'altezza della
dedizione ricevuta, ma che attinge a solide risorse interiori, quelle che
l'autore ha costruito dentro di sé attraverso lo studio delle scuole filosofiche
orientali e occidentali. Ci si muove "tra le pagine del tempo", tra "sponde
silenti" e "albe segrete", tra silenzi e luci ora piene ora incerte, ingrigiti e
gravati dagli anni. Anni che sono forse un'illusione della materia, ma quanto
concreta nei suoi effetti, nonostante la mente corre a "mondi / pensati / e
ancora / inespressi".
Vita e dolore sono
uniti in un ordito comune, la sofferenza è il prezzo paradossale del nostro desiderio di bellezza e armonia.
Si tratta di una poesia umbratile, sussurrata e lieve, conscia del Nulla non
meno che del Tutto: fronde "cadute eppur vive", pensieri "consunti nel tempo
eppur vivi", in un corrispondersi perfetto tra esperienza materiale e percezione
intima. Il ricordo si appunta, senza languore, nella memoria dell'attimo
"compiuto / e per sempre / smarrito", tra evocazione della presenza e vuoto
dell'assenza, con lo sguardo rivolto al "confine della Terra": perché lo
vorremmo tutti, quest'amore che dà pregio alla vita e valica la morte, l'unica
ragione effettiva per accettare d'essere infinitesimi barbagli di carne e
d'anima sparpagliati sui continenti di un infinitesimo pianeta d'un angolo
periferico del cosmo infinito.
Lo vorremmo tutti ma non a tutti
è dato viverli
e, quand'anche un incontro avviene, non a tutti è dato riconoscerlo come
l'unica cosa che contenga, davvero, il seme di un senso per vincere la paura, la
vertigine, lo smarrimento di questo "imbarazzante esilio". Forse è davvero tutto
un sogno, forse siamo tutti – come si definisce l'autore – "vaso di creta /
fragile, / io, / colmo di vento" e di "inutili parole", confinati ad un solo
passo dall'Assurdo e dalla Notte che ci circondano. "Vastità incolmabile",
quella del deserto della solitudine, "ed io che resto", in una condizione
d'irredimibile abbandono. Dov'è allora il conforto, dove?
Nel saluto contenuto
nel titolo, ovviamente: "Arrivederci, Amore". Arrivederci, non addio, alla
faccia del buio che avanza e di quello che vorrebbe inghiottirci.
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Recensione |
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