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Il Canzoniere dell'angelo di terra
Giovanni Sato è personalità poliedrica: poeta, musicista,
fotografo, attore, oltre che stimatissimo medico oculista. Autore prolifico,
nell’ultimo decennio ha pubblicato numerosi libri di poesia, definendo un
itinerario che ci ripromettiamo di ripercorrere, appena possibile, in modo
esauriente e organico.
Qui però vogliamo occuparci, a mo’ di “primo assaggio”
per i nostri lettori, d’una delle sue sillogi più recenti, in certo qual modo
esemplare e alla quale l’autore stesso afferma di tenere particolarmente. Un
canzoniere, innanzitutto: lo è certamente, poiché gli oltre centosessanta testi
sono tutti senza titolo e concatenati attorno al tema prescelto, quello
dell’“angelo di terra” presente sin dal titolo. Un angelo diverso, non celeste,
non iconografico, ma ugualmente capace di stabilire un contatto tra realtà
visibile e realtà invisibile (altrettanto reale), tra l’immanenza del tempo
terreno e la trascendenza dello spirito eterno, tra apparenza e sostanza, tra
finitezza e infinità: “collega cielo e terra / e terra e cielo è qui”.
Tutto
inizia con “l’eco di un germoglio” che è termine-chiave spesso ricorrente
(germoglio-foglio, ma anche foglia-ramo-gemma). Ma subito tutto s’arricchisce,
si sfaccetta e moltiplica: sottili variazioni, come in una partitura musicale,
si rincorrono in tutto il libro, a comporre un insieme di grande sottigliezza e
inventività creativa, fascinoso ma anche arduo, tutt’altro che privo di
implicazioni teologiche e metafisiche. Su questo versante colpisce, soprattutto
nella prima parte, il reiterato ricorrere della lettera “a” quale simbolo
dell’inizio, quasi a suggerire l’“umanità” ordinaria di un alfabeto quotidiano
contrapposto alla solennità della lettera greca alfa, fondativa nella tradizione
biblica.
Anche la terrestrità dell’angelo (che si compenetra con l’albero su cui
vive fino a diventare, in perfetta consonanza fonetica, un angelo-albero che “a
tutti i rami dona primavera”) è tutt’altro che semplice da decifrare: non è un
angelo caduto, forse è addirittura un semplice uomo, quello che in una poesia
viene indicato come “angelo delle povertà”. Del resto, non sarebbe poi così
strano: gli angeli “nascono dal vuoto delle nostre pene” per soccorrerci nella
nostra finitezza fatta di “minime minimmensità” e “vastità di pochi passi”,
gravati dal “dubbio di non essere / che materia per l’ombra”, ignari “come il
vagabondo [che] ha felice il cuore / nel suo disordinato mondo”, eredi di
quell’uomo che “aggiunse il superfluo / in tutte le cose”, immeritevoli d’ogni
pienezza che ci venga offerta.
Nondimeno siamo anche “progenie di gemme”,
abbiamo lo sguardo erratico “timido dell’essere / amato dal profondo”, sappiamo
domandarci se “avremo forza per ritornare al cielo”. S’incontrano poi, nella
sequenza dei testi, momenti distesamente lirici, anche poesie che si direbbero
d’amore (“così come fa il tempo quando ferma / l’abbraccio dentro al bacio che
ti ho dato”) e probabilmente lo sono, perché la meditazione spirituale non
esclude certo dal proprio orizzonte il sentimento umano.
Il senso complessivo è
comunque quello di un andare nel quale “tutto il proseguire è segno / per il
procedere dell’universo”, spingendosi “fino all’infinito dell’unico giorno”,
diretti “nell’oltrecielo del sempre rifiorire”. Cos’è dunque, alla fine, questo
canzoniere, cosa vuole veramente dirci e suggerirci? Non lo sappiamo per certo,
ma è sicuramente un libro da meditare e leggere più volte, forte e gravido di
quella poesia che non si esaurisce nel soffio di una gradevole suggestione
lirica, ma muove (e sfida) alla ricerca di una profondità oggi inusuale e
inconsueta: una direzione e un cammino tutt’altro che semplici o scontati, ma
ispirati e spronati dall’angelo “del dire, del fare e del pensare”.
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Recensione |
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