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Per sillabe e lame

Paolo Ruffilli coglie, in questa autrice, un dato costante, ovvero la "felice capacità di tradurre il dato filosofico-riflessivo in immagine poetica". Concordiamo, così come ci sembra interessante la brevissima premessa che Francesca Simonetti appone al libro, richiamando l'impossibilita di colmare l'abisso tra finito e infinito (lo "stacco / fra la terra e l'ignoto", dirà più oltre) e, tuttavia, la necessità di costruire un ponte che possa in qualche modo unirli. Le poesie che seguono, poco più di una ventina, si propongono con coerenza rispetto a tali assunti, confermando quanto già emerso dalle precedenti raccolte pubblicate nel corso dell'ultimo decennio: un dettato espressivo teso, robusto, denso fin quasi all'affabulazione, talora credo ma sempre incisivo e ricco di sfumature, dettagli, intarsi.

Non ci sembra banale cogliere, nel titolo, un'allusione a come anche le singole sillabe abbiano il proprio rilievo, taglienti a guisa di lame affondate nella realtà. Sillabe, e quindi parole, peraltro condivise, se si nota quanto l'autrice sia disposta a confrontarsi con altre voci e opere, evocando letture (e riletture) di nomi quali Herta Muller, Poe, Katarina Frostenson, Montale, Claus. Stratificata e complessa, per le movenze che suscita e suggerisce, la poesia di Francesca Simonetti sfida il destino umano, ovvero la caducità che ci accompagna e sovrasta, per indagare e trasmettere significati in un andirivieni tra intelletto e spirito, tra mente pensante e anima sensibile. Se lo strappo, a più livelli, è la naturale condizione umana, la ricucitura è uno dei suoi obiettivi d'autrice, "nella certezza del cerchio", anche se la storia appare enigmatica e maligna: il dialogo (esplicito) con la ragione si proietta dal sé al cosmo, invocando "tempo da aggiungere al finito".

Siamo mortali "ribelli per la forma mancante / dell'immortalità", divorati dal teatro tragico della storia, eppure animati dalla "caparbia volontà / d'eternare la vita, I'amore". Contro l'imputridire, forse la speranza – se ce n'è una – e proprio in quella "pura melodia / fatta di ragione-amore", un connubio in cui l'autrice in fondo sembra confidare. Viviamo sovrastati dal mistero, dall'inconoscibile, dalla finitudine, dalla malignità, dall'incubo, ma la poesia (incarnazione pratica, appunto, di ragione-amore) potrebbe vincere la morte, essere "eco della sorte avversa / o della gioia". Si, "tornano i versi dei grandi, / si riprendono il posto che spetta / a chi ha visto con gli occhi del veggente" e "pur esile groviglio di canto" può elevarsi "su ogni pianto di dolore".

Francesca Simonetti ha affidato a questo libro, dai molteplici anfratti e pertugi, il proprio personale e originalissimo elogio della poesia: ancora di salvezza alla quale, ben prima che aggrapparsi, desidera fornire la conformazione adeguata mentre "ripido si fa il cammino della conoscenza". Ed eccole allora qui, le sillabe del titolo, la speranza che prefigura spazi nuovi: "Forse la poesia potrebbe essere transumanza / per gli umani trafitti dal gelo".

Recensione
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