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Anelito di verità
Nel panorama poetico contemporaneo si segnala, tra gli autori veneziani, la
presenza di Laura Pierdicchi. Una presenza discreta, per riservatezza e
sensibilità personale, ma dotata di un suo proprio spessore e di indubbia
riconoscibilità. Della Pierdicchi, nata nel 1946 a Venezia e ora mestrina di
adozione, esordiente nel 1979 con A noi che siamo, cui fece seguire
Neumi nell'83, è uscita ora con la terza raccolta di versi intitolata Mai
più lieve.
Il
volume, introdotto da una prefazione chiara e affettuosa di Gabriella Sobrino,
rappresenta una nuova tappa nel percorso intrapreso dalla poetessa lungo il
territorio della sua ricerca, un momento completamente rispetto ai precedenti,
con i quali costituisce un discorso omogeneo e dagli incisi connotati. La
caratteristica più notevole di questa poesia consiste nella sua strenua aderenza
alla realtà vissuta. Verrebbe da dire che Laura Pierdicchi, per dare sfogo alla
sua immaginazione fantastica, si avvale addirittura del ricorso (quasi una
contraddizione in termini) alla mancanza di invenzione. Il lirismo, l'affabile
colorito del suo dettato non traggano in inganno, non sono che una patina (e
alquanto velata, per giunta) deposta su materia solida e ruvida, ben radicata in
eventi ripetutamente sofferti nel loro quotidiano manifestarsi.
La Pierdicchi racconta la storia di se stessa, una storia chiaramente
trasfigurata dal contatto con l'aspirazione e l'espressione poetica, ma una
storia effettiva, che rasenta talvolta il corso di quella "grande" (con l'esse
maiuscola) per poi ritrarsi daccapo nell'ambito più familiare e verificato. Si
tratta di un'esperienza minima e tuttavia importante perché segnata dal dolore:
si legga, al proposito, un componimento esemplare come Acque immobili e terre
profonde.
Nel suo anelito di verità il poeta tende alla comprensione del mondo, ma
questa sfugge innanzitutto perché il poeta è convinto di non essere per primo
compreso dal mondo. L'assurdità e l'accanimento delle situazioni provocano
smarrimento e qualche tentata ribellione (vedi: Mai più lieve). Ma pare
non esserci scampo, il diaframma che impedisce l'uscita nel mondo e la
comunicazione è infrangibile e non resta che acquietarsi in uno stato di
frustrazione che avvilisce la libera e completa realizzazione dell'intima
identità.
Un sentimento domina i versi di Laura Pierdicchi ed è quello della nostalgia
per tutto ciò (candore, giovinezza, spensieratezza...) che è irrimediabilmente
perduto o si è franto contro le asperità o le delusioni della vita. La memoria
della poetessa ritorna sempre a "quello che era prima che succedesse", al tempo
dell'incanto che adesso assume il senso di sola età felice e incrina la voce.
Sotto il soffio di tanta malinconica tenerezza riapriamo anche noi le più
lontane e nascoste pagine di questo diario: «Era il millenovecento...».
Un breve cenno a parte meritano i godibili ritratti: La signora,
Melania, quel gioiellino di Teresa sono testimonianze di una
singolare capacità di cogliere, con schizzi veloci ma compiuti, una figura, un
attimo di sogno e di impersonarsi nell'oggettivazione. Il verso, qua e là
contratto sull'urgenza emozionale, nei momenti di maggiore condiscendenza alla
confessione si distende in una dolce e accessibile cantabilità. Non si può certo
ascrivere Laura Pierdicchi al novero degli sperimentatori del linguaggio, epperò
la sua poesia non si richiama – se non occasionalmente – nemmeno alle scansioni
metriche classiche. Essa segue un respiro particolare che determina un ritmo
interno dalle cadenze piacevoli e di consistenza molto più solida di quel che
magari appare.
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Recensione |
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