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Prefazione a
L'officina delle comete
di Pino Giacopelli
la
Scheda del libro

Turi Vasile
Prefazione a modo
mio
Ora che sono giunto a una età nella quale finalmente so di non sapere, ho perso
ogni speranza nella ragione. Mi pare che essa non mi aiuti a sapere e che
insieme con la scienza sia condannata continuamente ad essere corretta, o
contraddetta, o smentita. Mi pare che essa, lungi dal diradarlo, infittisca il
mistero. Confido perciò solo nella poesia e nella fede: entrambe possono essere
negate, ma non discusse, prive come sono di ogni pretesa razionale; entrambe
sono come la luce di fronte a cui o si chiudono gli occhi o se ne resta
abbagliati.
Delle due, la poesia a la più direttamente contagiosa, sembrandomi la fede, nel
profondo, solitaria e incomunicabile, patrimonio individuale che tenta di
trasmettersi con la mediazione dell'amore; mediazione disperata perché spesso
non sappiamo amare.
Ora dire che leggendo queste liriche di Giacopelli, ne sono stato contagiato:
esse sono per me — fuori da ogni presunzione critica ed esegetica — poesia,
semplicemente. E perciò questa prefazione è a modo mio.
«Siamo, — noi
abitanti delle isole, — come comete — trasgressive pellegrine del cielo, —
potremmo scomparire come nuvole d'uccelli, — fare un viaggio attraverso — la
rete dei miti...» Mentre ricopio questi versi da L'officina delle comete
che dà il titolo alla raccolta, sollevo gli occhi e attraverso i vetri della
finestra vedo nuvole di storni migratori avvolgersi a spirale nel cielo,
precipitare e poi sollevarsi trionfalmente, disperdersi e poi d'improvviso
ritornare a raggrumarsi. Mi sento preso nella rete dei miti. «Nell'officina
delle comete, — falò di pigne, — il segreto della nostra storia.» Ora niente mi
appartiene più dei «millanta passi — lontano da qui nella trama della diaspora»,
da dove sono venuti i numerosi popoli mediterranei e non, dandosi convegno per
generarci.
Pino Giacopelli
risale così le sue e le nostre origini: ora perdendosi nel deserto e nel cielo
astronomico, il primo libro letto dall'umanità e scrutato dagli arabi; ora
cedendo al languore della carezza di «quella mano (ansimante) come pianta marina
— a cui confido i miei segreti senza tramite — e sensalíe»; ora rifugiandosi nel
Castello Aragonese; ora approdando alla terra promessa (a tutti o a
nessuno?) dove morti vegliano — sui vivi»; ora ritrovando nella Plaza de
España «stessa purezza carnale, stesso sentire di casa mia»; ora risalendo
la via che porta alle notti bianche del «giardino d'inverno smeraldino, — sulla
Neva», «nella foresta inventata dagli artisti» dove, nel silenzio, «parlano i
poeti»; o solcando il «mare d'Omero» dove «Ulisse naviga nell'avventura
dell'esistere — senza (forse) un'Itaca cui fare ritorno.
E in tanta varietà di origini Pino Giacopelli non perde mai la sua anima di
poeta arabo (cioè lo spirito errante di una diaspora in patria), legata a una
identità immutabile che non si smarrisce neanche attraverso la rete di tanti
itinerari.
«Tu non sei andato
altrove» intitola infatti la seconda parte — tratta da Gelato di fragola
(1982) — di questa raccolta. Mi vengono spontanei alla mente i versi di Orazio
Coelum non animum mutant — qui trans mare currunt —; e tuttavia
corrono, desiderando «che nel mondo non fioriscano strade — come nel cielo». Qui
la poesia di Giacopelli si fa frammentaria; somiglia ai reperti archeologici ai
quali le mutilazioni inferte dal tempo accrescono suggestione e bellezza. «Andrò
con un messaggio nell'anima...» E ancora, a conferma della memoria di Orazio,
«da quando sono partito sono tornato — soltanto col corpo — come se anima cuore
e pensieri — fossero rimasti impigliati per l'universo».
Poi d'improvviso,
l'anima araba sorvola l'Oceano, a lungo nei secoli ignorato, e partecipa
all'ultima epopea, quella che celebra la fierezza e la dignità dell'uomo, allo
spirito pionieristico di Walt Withman, tradotto secondo la raccomandazione di
Giacomo Leopardi, citata a introduzione della terza parte della presente
raccolta.
Rileggo, quindi, le
Foglie d'erba (Leaves of Grass) del poeta americano e non
potendomi liberare dall'immutabile condizione isolana a cui le precedenti
liriche mi hanno riconfermato, trasferisco ai nostri pionieri, che la miseria
spinse in ben diverse praterie, quella luce eroica dagli onesti non percepita e
che tuttavia trasfigura le loro conquiste. Ognuno, nei tempi moderni, ha un suo
Far West.
Ora chiudo le bozze
di stampa che Giacopelli mi ha mandato, e resto immobile a percorrere il cielo
senza strade dove il poeta mi ha portato. Ora, pia che mai, non so; ma sento.
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