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La parola di
Lippo si propaga e dilaga come sonori marosi sfidanti la luce. Sì, quella luce
priva di filtri della terra di Puglia, aspra e dolce, sanguigna e trascinante
come una coppa di vino. Si beve con il poeta, si immagina e si vive la vita con
occhi inebriati. E’ come far parte all’improvviso di un corteo bacchico: il
calore avvolgente, l’odore del mosto, i miti ricorrenti. E’ importante attingere
per vivere: gustare sotto le papille il nettar della vita per viver ancora e
immaginare di farlo. Vino, compagno della solitudine, scintillante sotto il
sorriso misterioso della luna. Vino nel calice del sacrificio: «Bevetene tutti,
questo è il mio sangue». Sacro e profano accostati dalla forza del verbo.
Bere
per non pensare al dopo, bere per coprire le distanze, bere per continuare a
vivere senza volersi fermare. Bere e correre è vita; è voler ancora sperare
vagando nei meandri infidi dei giorni. Tutto si ravviva nell’incendio
dell’estate: rinascita e insieme ricordo tornato vita dalle memorie
dell’infanzia. Inneggiare per non perdersi. Attardarsi sulla soglia per
esorcizzare il vento d’autunno, declino di ogni essere umano. Anche in
solitudine è possibile annodare i ricordi in un brindisi che non sarà avaro di
gioia. «Mi ricorderò a lungo di te | quando mi urlavi forte | dentro | come una
sposa che ti sfiora | gli occhi per la prima volta».
Poemetto breve,
essenziale, intenso come una pennellata che ti agita nel profondo. Rimani
stregato senza sapere da chi o da cosa; questo vino spumeggiante che ondeggia
nel calice, inebria, turba e trascina verso sensazioni remote come la vita
dell’androgino, inquietante, mistico ed erotico a un tempo San Giovanni di
Leonardo.
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Recensione |
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