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Due poeti a confronto sul
tema della morte: Liana De Luca con Il posto delle ciliege (Genesi Ed.) e
Venerio Scarsellí con Piangono ancora come bambini (Campanotto).
Il posto delle ciliege della De Luca è articolato in quattro
sezioni dove fluisce ininterrotta una suggestiva sintassi di figure connesse
fra di loro secondo una strategia poetica esemplare e un disegno profondamente
pensato e sentito. Per arrivare, sempre, al concetto che più preme alla poetessa
di sublimare con la parola. La prima parte, intitolata Le radici, incarna una
intensa filosofia della morte tutta foscoliana, anche nei richiami lessicali,
ivi compresa una lode del rispettare, esaltare, coltivare nella memoria il suo
senso religioso come accadeva un tempo, quando essa non incuteva il terrore di
oggi, quando "il lutto si addiceva ad Elettra", o bastava un segno di croce per
scongiurare i malefici legati alle paure degli uomini, e i bambini giocavano coi
gatti nei cimiteri, e si inumavano i corpi a contatto diretto con la nuda terra.
Ne Il sangue, la parte forse più colorita e intensa della silloge e gravida di
eventi, vengono coinvolti (motivo assai familiare alla De Luca) personaggi
femminili della storia: Ofelia, che "Intreccia | ghirlande con íl rosmarino del
ricordo"; Desdemona, che "intreccia | la canzone del salice alla trama
| del
fazzoletto smarrito"; Giulietta, perseguitata da due tipi di morte, quella
falsa, quella vera; Ilaria, "composta nelle pieghe dell'abito di marmo".
Della sezioni Gli eroi, altro corteo di creature, questa
volta maschili, scelgo Il diavolo, figura ricorrente
nella letteratura di tutti i tempi, da cui esce sempre qualcosa di nuovo. Di
lui la poetessa sottolinea, con indimenticabile vigore inventivo, "la bellezza
della bruttezza... non mai comunque il vuoto, il buio, il nulla", ma in serbo
per lui, "angelo ribelle in obbedienza", la scadenza dei termini della
condanna, "alla fine dei luoghi e dei tempi".
A tempo giusto, infine, ultima sezione della raccolta,
conclude in piena sintonia con la prima il circuito dedicato alla morte. Alla
persona che se ne va spettano zolle e radici ed esenzioni da contatti che ne
inquinino la purezza: il posto delle ciliege, insomma. Mai questo tema caro alla
De Luca aveva riempito così efficacemente le pieghe nascoste del tessuto
poetico, livellato le cuspidi ritmiche e lessicali, ignorato tecniche
consacrate, realizzato un'estrema linearità con pochi tratti decisi del verso,
conferendo alla poesia una dignità nuova, giacché il senso della morte non è, in
Liana, né troppo drammatico o troppo retorico, o turpe (come è facile che
accada), ma quasi sereno, nella sua fatalità di evento fondamentale della vita.
La raccolta
Piangono ancora come bambini di Venerio
Scarselli è meno rapsodica di quella della De Luca. Anzi, rispetta le tre unità
aristoteliche di tempo, spazio, luogo (la prima stesura è stata tracciata in una
notte, durante la veglia funebre alla madre morta) con l'aspetto del poemetto.
Inquietante l'esperienza dello Scarselli, inquietante e tuttavia esaltante come
un atto sacrificale.
Per il poeta la morte è una bestia che annusa da tempo le sue
vittime, una rozza serva del Male, colpisce
uscendo dal suo nascondiglio e rompe il meccanismo dell'essere, fa tremare gli
eventi del mondo, è una casta impudica, un uovo vuoto, non fa altro che
distribuire semi maligni e schiuma altrettanto maligna vomitata dalle fauci dei
demoni. Quando arriva, fa scattare "l'ora ignuda dell'assoluta solitudine" e si
riconosce subito per il suo odore terribile. La madre, inghiottita dalla morte,
sembra però esserci ancora, sembra che continui a respirare con illusorie
vibrazioni del diaframma e stenta a rendere definitivo il distacco giacché
"l'anima è già staccata dal corpo | ma non può essere lontana". Tra la madre e la
morte lui, il poeta, il figlio, "che non è stato un amoroso giglio", pronto per
l'ultimo atto tra lucciole e grilli, che si dovrà contentare d'ora in avanti di
un umile giardinetto, dove piantare "anche il mirto odoroso |, la lavanda, il
pepolino, la cedrina".
Così la poesia della morte di Venerio Scarsellí, nel suo
eterno intento di battersi tra la rassegnazione e la rabbia, la tenerezza
struggente degli affetti e la brutale attestazione della realtà, segna la sua
indipendenza da qualunque moda poetica e conclude nel linguaggio sconvolgente
di cui ha parlato Mario Sansone, e tragico e ossessivo a proposito del corpo che
dice Luigi Baldacci, con questo estremo saluto alla madre che vale l'intera
raccolta: "Me l'hanno messa su un tavolo di marmo, | da lavare e vestire: è mia
per sempre".
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Recensione |
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