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Preparativi per la partenza

Si tratta quasi di un esordio narrativo per Paolo Ruffilli – più noto al pubblico per la sua lunga e proficua militanza poetica – questo Preparativi per la Partenza, pregevole tessitura di 18 racconti in una trama unica che ha, in sé, una fluida consistenza per cui la lettura risulta, oltre che piacevole, utile. Sono 146 pagine che scorrono via bene, coniugando il fine didascalico con il mezzo letterario senza che l'uno vada mai a discapito dell'altro. Paradossalmente questo nucleo di racconti – tenuti insieme dall'idea di una ricerca individuale che avvenga attraverso l'incontro di "vite singolari" (i vari personaggi) – risulta più unitario di tanti altri libri che, invece, pretenderebbero di esserlo.

L'organicità dell'opera è dichiarata fin dal principio quando, proprio nel Prologo, lo stesso Ruffilli – qui nella duplice veste di autore e narratore – definisce i suoi personaggi "figure delle numerose anime di una stessa persona". E questa dialettica tra molteplicità apparente e unità segreta si manifesta persino in senso fisico nell'ermafrodito de "Le due facce della luna". Introdotto dal racconto di Ovidio nelle Metamorfosi, questo personaggio porta su di sé il segno della duplicità, presentandosi come "una di quelle doppie immagini che si rivelano in rapida successione".

Ma l'unitarietà, cui ora si accennava, è evidente nell'aspirazione comune di tutte le figure dell'io-scisso del narratore, ossia "riportare alle dimensioni supreme lo stato occasionale e contingente della propria vita", che poi si risolve nel prendere coscienza della propria funzione, per usare un termine caro al ladro sfortunato. Ed è evidente anche quando lo stesso ladro riconosce che, nell'assolvere tale funzione, egli risponde soltanto ad una chiamata (pag. 91). La stessa chiamata "più forte di noi" (pag. 42) di cui parla l'ex-tuffatore de "La chiave e il salto", enfatizzandone – però – l'aspetto sacro. Per lui, i Clavadistas sono addirittura sacerdoti laici che "si esercitavano a morire" per rigenerare la vita, "congiungendosi ogni notte con la terra".

Unitarietà – dunque – al di là delle molteplici forme ingannevoli, e unitarietà anche negli aspetti che via via esse assumono. Ognuno dei personaggi, in effetti, pare colto in un momento di estasi – di rapimento, quasi – in cui è posto davanti non ad un interlocutore particolare, ma al proprio destino. E così, senza più infingimenti, ognuno di loro traccia una sorta di consuntivo che, lontano da ogni falso moralismo, giunge fino alla coscienza dell'Uno dietro il Tutto.

Mi pare significativo, a tal proposito, il ricorrere reiterato del verbo vedere in tutti i suoi sinonimi e di quei caratteri propri di divinità orientali – come il sorriso omnicomprensivo e la quiete ancestrale – che tradiscono alcune passioni di traduttore del Ruffilli autore, come per Gibran e Tagore. E ne do, qui di seguito, alcuni esempi: il lupo di mare "guardava me, ma fissava un punto più lontano" (pag. 14); il giocatore d'azzardo "mi parlava fissando un punto lontano" (pag. 35); l'ex-tuffatore parla "fissando intensamente il precipizio" (pag. 40) al punto da contagiare anche il suo interlocutore "i miei occhi fissi verso il fondo (...)" (pag. 44); l'ermafrodito Johann Marie parlava "con un distacco che non escludeva la partecipazione" (pag. 68); addirittura lei confessa che "attraverso gli occhi del collezionista [delle Cipridi] la vedevo (...)", ed è lui stesso ad invitarla "Vede? Stando qui (...) e guardando di quassù il mare (...)" (pag. 79); o con la schiava d'amore che "Emanava serenità", ma poi "La guardavo e, più la fissavo, più mi evocava la femminilità dominatrice" (pag. 84); o il ladro che, nel confidarsi, "mi guardava fisso negli occhi" (pag. 92) "e sorrideva fissandomi" (pag. 93) ma alla fine "fissava il vuoto davanti a sé" (pag. 95); o ancora l'esperta sessuologa "assorta nel suo discorrere piano" che pure "mi sorrideva piena della sua felicità risolta eppure misteriosa, sospesa nel tempo e nel destino che aveva appena evocato" (pag. 100), tant'è che lei "incarnava la concretezza fisica diventata pura visione" (pag. 101), "con la sua calma regale" (pag. 102).

Anche se il massimo grado di trascendenza si ha nella figura del giudice il cui viso "sembrava scolpito nel tufo", "ma appariva rassicurante, con il sorriso sulle labbra appena piegate verso l'alto. Sprigionava una carica intensa dagli occhi tagliati in obliquo" (pag. 113). Tra l'altro, proprio quest'ultimo tratto somatico lascia ipotizzare una sorta di immedesimazione maggiore del narratore-autore che in tale particolare ("occhi tagliati in obliquo") riconosce, nel Prologo (pag. 7), uno di quei "tratti esotici che mi porto addosso".

Lo sguardo torna il veicolo di una comunicazione pre-verbale in "La cima delle rape" quando "gli occhi del direttore [dei Progetti Speciali al MIT di Boston] mi trasmisero un lampo di curiosità" (pag.132) fino a pervenire alle estreme conseguenze nel viaggiatore perenne i cui occhi "lanciavano lampi intermittenti da due crateri aperti sotto la vasta fronte" (pag. 144).

Tutto – dunque – sembra rimandare oltre, "più in là" direbbe Montale. Ma anche a livello meta-testuale, il sistema di riferimenti sposa con naturalezza i classici coi moderni, dando un'idea di continuità – sì – storica, ma non storicistica perché il contributo di ognuno andrà a fondersi nel Tutto che lo giustifica. E anche qui gli esempi sarebbero molteplici: oltre al già citato richiamo all'Ovidio delle Metamorfosi, vi è un intero racconto (o, se preferisce, capitolo) "L'omino Michelin", dedicato alle passioni letterarie dell'autore e, più in generale, all'Arte. Ma l'aura di classicità riemerge qua e là in tutto il libro: dal significato in sanscrito del termine "mare" a quello del corrispondente aggettivo greco, dal riferimento a divinità di tipo panteistico come il mare Adriatico personificato (pag. 17) o il dio del mare nella leggenda sull'origine delle conchiglie (pag. 80), o ancora il legame primitivo e violento con la madre terra ("il nostro mestiere è di tuffarci tra le cosce della terra" pag. 43) e l'idea, comunque, del rito sacro. Eppure non mancano neppure rimandi ad autori recenti, o altri echi come quello di Thomas Mann nelle parole della schiava d'amore che invita "a partecipare davvero alla festa della vita" (pag. 87) o la filosofia di Schopenhauer nella visione di un mondo come pura rappresentazione di una volontà iniziale.

L'unitarietà – in conclusione – pervade ogni aspetto dell'opera (testuale e meta-testuale) e ne dà il senso; fino alla confessione finale di un eterno, inquieto viaggiatore che – nonostante la coscienza "di aver sprecato molte occasioni, di non essermi lasciato andare" –, nonostante l'incomunicabilità che permane tra i "due mondi lontani e stranieri" che sono l'uomo e la donna, nonostante una premonizione di morte "o avrei dovuto dire scomparsa" – nonostante tutto questo, ha la forza, il coraggio! – di dire in modo ancora una volta distaccato, ma di un distacco "che non esclude[va] la partecipazione", che è pronto a scommettere che la strada continui di là dal termine, oltre la morte apparente delle molteplici forme.

Recensione
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