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Un romanzo a carattere autobiografico, che si fa via via consuntivo di un’esistenza e riflessione sulla stessa. Ne è autore Raffaele Cecconi, sensibile scrittore e poeta dalmata, veneziano di adozione. Filo conduttore dell’opera è una coniugalità che rimane integra nonostante gli inevitabili colpi e contraccolpi, compreso l’episodio di un adulterio commesso dall’io narrante con una donna che rimane misteriosa: la “signora X” del titolo, appunto.
Il libro si correla sotterraneamente al modello classico delle « confessioni », in una sua agile e moderna facies, peculiarmente nel suo essere, come lo stesso scrittore esplicita, « la scoperta di chi si trova l’esistenza alle spalle, […] la storia di una vecchiaia e delle inquietudini che ad essa si accompagnano». (p.132) Venezia, in cui è ambientato il racconto, non si limita a fungere da scenario, ma si fa, per così dire, parte attiva delle vicende e in esse penetra come l’acqua della laguna fra calli e campielli, per diramarsi in rii e canali in cui case e palazzi si riflettono. La perla adriatica, anch’essa dramatis persona, è quella, non stereotipa, che riesce a celarsi all’invasione dei turisti, in una sua quasi gelosa autenticità: la Venezia di ogni giorno e dei veneziani, che scompare e riappare nelle pagine del libro, comunque intuita anche quando si parla d’altro. Afflitta da guai enormi, la città non nasconde i segni del proprio deperire, in una sorta di estenuazione lagunare, tuttavia capace di riscattare anche la propria sommergente oleografia e di rivitalizzarsi miracolosamente: « Venezia non è una città come le altre. Ancor più che una città ne è il simbolo. Ed è un piumino di cipria con cui imbelletta se stessa nel pigro tentativo di conservare i propri passati splendori. Le preziosità e i marmi di cui si copre non bastano a nasconderne la decadenza, per cui giureresti che la città è votata a morte prossima. Mentre basta un niente a spostare questa prima impressione, o addirittura a cancellarla, perché Venezia sembra possedere davvero, come l’animale mitico che dà il nome al suo teatro, l’illusionistica facoltà di rinascere dalle proprie ceneri. Allora basta un piovasco a rinnovare la città e a rinfrescarne l’aspetto. Le case vecchie sembrano improvvisamente tornare nuove: le crepe dei palazzi acquistano fascino mentre le tinte si scaldano nella luce.» (p.46) In questo libro di memorie, il presente ha un peso pari a quello del passato e il quotidiano – dell’oggi e di ieri – è il collante della narrazione, condotta con l l’immediatezza, appunto, della vita di ogni giorno, vissuta nella sostanziale solidità del rapporto coniugale e l’io narrante si dichiara «contento di riprendere il giorno dopo la nostra solita vita». Della “solita vita”, lo scrittore è attento a cogliere i momenti alti e a rappresentarli con venature di poesia –, trova nel romanzo il suo fascino tiepido e insinuante. La normalità (interrotta di tanto in tanto da viaggi, a volte anche lunghi e ardimentosi), lungi dall’essere demonizzata, è gustata come un bene prezioso, tra un evento e l’attesa di un altro, tra i pungoli dell’imprevisto, in un inevitabile altalenare. « Purtroppo, se ogni giorno qualcosa ci viene dato, c’è ugualmente qualcosa che ogni giorno ci viene rubato. È un’altalena che condiziona tutte le nostre scelte. Ed è proprio in questo alternarsi di addizioni e sottrazioni che ognuno cerca come può di ottenere un pareggio.» (p.102) Un testo di rilevante finezza – un poema narrativo della memoria e della nostalgia–, connotato da fluidità di scrittura, coinvolgente discorsività, pacata e incisiva sapienzialità, per cui il narrare si fa colloquio, dell’autore con se stesso e con il lettore, talvolta a voce alta e talaltra sussurrato, ma sempre con tono disteso. Una conversazione intramezzata da frequenti digressioni, a volte simpaticamente impertinenti, nel corso delle quali Cecconi esprime sue opinioni su vari aspetti esistenziali o sociali etc. Impreziosiscono queste pagine una garbata ironia e un irrinunciabile lirismo di fondo. |
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