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“[…] è una povera stanza d’una povera casa,
una
casa embrionale a ridosso di muraglie sbrecciate nel budello
d’un cortile
sghembo tra sudici retri di magazzini, al centro
d’una città in ricostruzione
[…]”
Ci pare quanto mai opportuno consigliare la lettura del
testo qui preso in esame nell’anno in cui ricorre il 150° dell’Italia, perché,
trattandosi d’un racconto che parla dell’esperienza d’emigrazione d’un italiano
all’estero, può essere utile per ricordare e vivificare alcuni elementi chiave
della nostra stessa identità culturale. L’Italia da sempre è stata un paese di
emigranti nel senso più ampio del termine, di esploratori, commercianti e
conquistatori sin dall’alba della sua storia. E l’Italia è stata un paese che,
per la sua posizione nel cuore del Mediterraneo, è stata essa stessa terra
d’immigrazione, d’esplorazione, commercio e conquista. La questione
dell’immigrazione non può che ricordarci quanto l’identità italiana non sono non
si è dissolta in questo movimento e in quest’assimilazione e confronto di
culture eterogenee, ma anzi, nel corso della sua storia, non ha fatto che
cementarsi e divenire, proprio perché posta di fronte a tanta diversità, sempre
più consapevole di se stessa e della propria unità.
Nel caso specifico, il
testo di Persio Nesti risulta essere anche una grande metafora dell’immigrazione
e dell’emigrazione, non solo italiana, ma in generale, intesa appunto come
l’installarsi d’un individuo in un paese straniero con tutto ciò di viscerale
che questo comporta. E proprio qui sta il punto. La scrittura di Nesti, che ci
piace definire “fisiologica”, si accorda con un fatto fondamentale:
l’emigrazione è, innanzitutto, un fatto biologico, prima che una questione
culturale. È un fatto biologico innanzitutto perché si tratta sempre di un
individuo, o di un gruppo di individui, che si muove ed esplora nuovi ambienti
essenzialmente per il proprio sostentamento, per trovare cibo e riparo
allontanandosi da dove non ne aveva, o ne aveva poco e di cattiva qualità. Non è
mai stata una molla “spirituale” quella che ha fatto scattare i grandi movimenti
migratori nel corso della storia, sin dall’apparire stesso della nostra specie,
ma è sempre stato un fatto biologico, e su questo sfondo biologico si è
sviluppata, poi, la cultura stessa. L’emigrazione è un processo per cui un
individuo deve adattarsi a un clima diverso, a cibi insoliti, a colori e odori
nuovi, prima ancora che a cultura, lingua e usanze – anzi, l’adattamento
culturale avviene proprio attraverso l’adattamento biologico.Riteniamo che
Walter Nesti, nel suggerire il titolo di questo romanzo postumo, abbia scelto
una metafora quanto mai azzeccata e suggestiva: Nel ventre di Gravebürden. Un
ventre che appunto sta a indicare quanto l’emigrazione coinvolga le viscere
stesse dell’uomo, prima ancora che il suo intelletto. E lo stile vivo e
immediato dello scrittore, anche nella sua frammentarietà e nella sua analogia,
in certi casi, al puro flusso di coscienza, non fa che confermare quest’idea
fondamentale. Nel linguaggio di Nesti il pensiero è un cancro, le gocciole di
pioggia sono pustole, la casa è un embrione, i bordelli sono “pieni di folla e
di fumo, frizzanti di birra e di carne umana” e così via. Riteniamo che il fatto
che sia stato proprio un umanista come Nesti a proporre questo tipo di metafore
carnali, immagini che per certi aspetti mi hanno ricordato Cèline, che era
medico oltre che scrittore, questo fatto avvalora ancora di più l’aspetto
viscerale, carnale, biologico, prima ancora che spirituale, di ogni esperienza
umana.
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Recensione |
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