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Figaro: Mi dà angoscia vedere vite senza arte né
parte a caccia di copioni.
Lucrezia: […] Tutto è iniziato perché volevo un
compagno di giochi per fare qualcosa: il teatrino, fiori di verdura, animali di
frutta, passatempi, magari anche una storia. Non m’interessa né il senso, né la
morale, non mi piace quando finisce. Voglio una trama senza punteggiatura, un
acme continuo. |
La scrittura è l’ultima
operetta teatrale, edita da Fermenti, della briosa Noemi Israel, già conosciuta
e premiata autrice di testi per il teatro e racconti umoristici.
La scrittura è un
intreccio di vago sapore pirandelliano per la leggerezza, lo spirito e il garbo
con cui la Israel tratta tematiche che si prestano a molteplici letture e che, a
uno sguardo più approfondito, si rivelano implicare paradossi e problemi etici e
filosofici profondi, quasi radicali.
A una lettura più elementare il
testo qui presentato sembrerebbe raccontare la storia di Lucrezia, una donna
ricca, annoiata e senza valori alla ricerca di un diversivo con cui riempire
qualche ora di un’esistenza senza senso. Scrittura quindi un attore, Figaro,
pagandolo profumatamente, per impersonare personaggi, storie e avventure
preconfezionate e asettiche, in cui anch’ella è partecipe, ma senza alcun
coinvolgimento, almeno in principio, erotico ed emozionale. In questo senso il
teatro, la scrittura appunto, diviene una metafora della vacuità della società
civile, in cui la maschera, la recita, l’artificiosità e l’inautenticità sono la
triste regola.
Il testo si presta anche a una
seconda lettura, diremmo intermedia fra la prima e una più profonda che
proporremo qui sotto. La finzione della realtà che Lucrezia ricerca nel teatro,
e in Figaro, è piuttosto il mezzo di una fuga dalla realtà, frutto del rifiuto
consapevole e deliberato dell’assenza di valori della società di cui Lucrezia
stessa fa parte. A conferma di questa interpretazione le parole esplicite di
Lucrezia, pronunciate alla fine della commedia: “Chiediamo asilo alla Finzione –
dice la donna a Figaro – lo Stato dove non si soffre mai. Andiamo via.
Esiliamoci. Lontano da malsane verità. Giriamo alla larga. Subito. Adesso.” A
ben vedere, si tratta di un ‘gioco’ in cui anche Figaro si trova intimamente
coinvolto, perché anche l’attore rifugge il mondo a cui appartiene: sia quello
del teatro, la cui corruzione sembra essere interpretata dal collega Dulcamara,
invischiato in traffici di stampo erotico-pornografico, sia quello del vero
lavoro di Figaro, che fatica per ottenere il riconoscimento di chef.
Lui si stesso si definisce: “Sguattero, in cucina, a saziare gente priva di
ricordi e di poesia.”
Infine, a un’ulteriore lettura
che riteniamo forse possa far emergere gli elementi più originali e sentiti
della rappresentazione, questa fuga dalla realtà può essere vista come,
paradossalmente, una via d’accesso non tanto a un mondo di pura finzione, quanto
a una dimensione più reale, più immediata e autentica della realtà stessa. In
effetti, nel corso delle diverse rappresentazioni che Lucrezia commissiona a
Figaro, mano a mano emergono anche una serie di “improvvisazioni” e
“fuoriprogramma” in cui emergono i veri caratteri dei personaggi e in cui sembra
modellarsi un sentimento reciproco autentico. La finzione, o piuttosto la
rappresentazione, sembra quindi, in ultima analisi, il vero aspetto della
realtà e della vita. Come se non esistessero, a priori, un’unica realtà vera e
un modo di vivere autentico, ma solo dei possibili modi di essere che,
rappresentandosi, acquisiscono corpo e carne. Il teatro diviene dunque la vera
dimensione delle cose e delle persone e la “morale della favola” sembra essere
la seguente: visto che noi tutti non siamo che rappresentazioni, tanto vale
scegliere consapevolmente la parte che vogliamo rappresentare,
proprio perché lì, nella nostra volontà e nei nostri desideri, si nasconde
l’essenza più profonda. E la suggestione, intrisa di filosofia ebraica che fa
parte del bagaglio personale dell’autrice, sembra essere che è proprio il potere
della parola, incarnata nella Scrittura, a rendere possibile la realtà e
la vita, come rappresentazioni che continuamente creandosi dal nulla
rappresentano se stesse.
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Recensione |
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