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Se potessimo
raccontare a un uomo del passato, diciamo del Medioevo, il percorso storico che
ci ha portato alla nostra epoca attuale, forse quest’individuo si potrebbe fare
un’idea profondamente diversa rispetto a ciò che sta realmente accadendo.
Nel corso degli ultimi tre secoli l’umanità si è liberata da qualsiasi
vincolo intellettuale. Schematicamente, possiamo descrivere il processo come
segue. L’illuminismo ha demolito la fede nei saperi dogmatici. Il positivismo ha
demolito la fede nelle realtà ultraterrene. Il XX secolo, per il quale forse si
deve trovare ancora una definizione univoca, ha demolito tutto ciò che rimaneva:
nessuna morale, nessun credo politico, nessuna igiene, intesa nel suo senso più
ampio, ha potuto mantenere una validità assoluta. È proprio la pretesa di
oggettività e validità universale di qualsivoglia conoscenza e precetto di
condotta morale che ha dovuto arrendersi di fronte alla critica razionalistica
che si è costituita come il nerbo della verità consensuale e condivisa
unanimemente. L’unica verità attualmente fuori discussione non ha un contenuto
positivo, perché corrisponde al detto: non esiste verità.
Ora, se non esiste verità, e se la verità si dà principalmente nel suo
aspetto concettuale, sembrerebbe rimanere un’unica via di fuga dal totale
nichilismo: il corpo. Se la dimensione intellettuale e intimistica
dell’esistenza non ha alcun valore oggettivo, l’unica cosa che sembra poter
offrirsi in modo insindacabile è appunto la materialità delle cose. E i conti
sembrano tornare, se si osservano gli esiti offerti dal XX e dal XXI secolo:
epoche dell’apparenza, della superficialità, del materialismo, del possesso, del
denaro e della fama. Oggi tutto ciò che conta sembra dileguarsi nella sua
dimensione fenomenologica: solo ciò che si vede e si può toccare e può
mettersi in mostra ha diritto di cittadinanza fra le cose considerate di
valore e degne di essere perseguite, mentre tutto il resto non ha importanza. O
meglio, tutto ciò che riguarda il valore morale delle cose, non potendo essere
percepito al tatto e alla vista, è affare individuale. Non è che non
conti nulla, perché l’opinione pubblica continua a riservare un posto speciale
per ciò in cui la gente crede, come Dio o la fede politica o i
convincimenti morali. Ma questi aspetti non hanno un valore assoluto né
tantomeno vincolante. Ognuno, cioè, è libero di credere in quello che vuole –
purché non ostacoli la libertà degli altri. È chiaro come questa presunta
uguaglianza nel diritto di fede corrisponda, in realtà, a una svalutazione. Se
io posso credere in ciò che voglio, beh, in fondo significa che quello in cui
credo non è importante, perché può non essere condiviso anche da alcuno al
mondo.
Tornando all’imporsi del valore fenomenologico delle cose, al fatto cioè
che valgano solo i beni materiali e non quelli che un tempo erano considerati
spirituali – quest’individuo del Medioevo potrebbe essere portato a pensare che
oggigiorno si vive nell’epoca della corporeità più sfrenata. Potrebbe
pensare, da buon uomo medioevale, che la contemporaneità vive un ritorno al
paganesimo nel suo inno ai beni materiali. I pagani, in effetti,
riservavano un posto speciale al corpo e ai valori corporei, come bellezza,
salute e prestanza fisica, cibo, sesso, denaro, potere e fama. Di primo
acchito, in effetti, anche noi saremmo propensi a concordare con lui; a
sostenere che sì, viviamo in un’epoca pagana in cui la materialità del corpo e
delle cose gode di uno statuto privilegiato, quasi unico. Basti pensare ai
canoni estetici e morali proposti dalla televisione e dal cinema, i mezzi
culturali che hanno assunto in poco tempo il peso maggiore nel modellare
l’opinione pubblica.
Eppure, a ben guardare, c’è qualcosa che non torna in queste conclusioni.
Ed è proprio (anche) grazie al romanzo erotico, carnale, quasi hard di
Pasterius che possiamo rendercene conto. Antòn Pasterius è pittore, poeta e
scrittore di un’altra generazione; forse diremmo, a malincuore, di un’altra
epoca. Moldavo di origini, vive a Parigi, città bohemien per eccellenza.
L’autore della presente recensione non lo conosce di persona, ma lo ha
immaginato – leggendo le sue parole e ammirando alcune sue opere nella sua
galleria virtuale (antonpasterius.com) – come un autentico, vecchio, scaltro
bohemien che con la sua arte trasgressiva tenta di scuotere le coscienze
dogmatiche e insonnolite dell’animo contemporaneo. La storia di Jules e A’Isha è
una storia di sensi e di abbandono. È una storia di stati d’animo profondi. È
una storia in cui il sesso viene vissuto con gioia, piacere e naturalezza; in
cui viene esplorato fino in fondo, fino a rasentare la perversione, ma senza mai
cadere nel patologico. A volte procura anche dolore, in particolare a Jules,
quando non riesce a liberarsi dai suoi pre-giudizi, ma è un dolore che ha un che
di liberatorio. E A’Isha, come una figura divina, si offre come una fonte
di conoscenza, piuttosto che come un semplice strumento carnale.
Ora, nella nostra epoca di corporeità più sfrenata, come si accennava
prima, questo dovrebbe essere un romanzo che tratta di una tematica del tutto
naturale. Il nostro tempo, il tempo della liberazione e dell’emancipazione
della carne dallo spirito, beh, dovrebbe essere abituato a parlare di sesso, a
leggere di sesso, a vivere il sesso più libero e sfrenato nella stessa
quotidianità. Eppure, questo interessante, autentico e divertente racconto non
suona trasgressivo, non suona nemmeno naturale, ma ha un suono divenuto ormai
irrimediabilmente estraneo. Il lettore contemporaneo, che dovrebbe essere
predisposto a figurarsi le scene hard e gli abbandoni descritti da Pasterius
come faccende del tutto naturali e quotidiane, quasi si trova spiazzato, o
persino a disagio. Ecco, l’incongruenza fra il modo di vivere e presentare il
sesso da parte di Pasterius e ciò che realmente sta accadendo nella società
contemporanea salta subito agli occhi se si prende in considerazione il destino
che stanno subendo l’utilizzo e la rappresentazione del corpo umano –
cioè di ciò che dovrebbe essere, nella sua immediatezza carnale e sensuale, il
primo obbiettivo, anzi, il vero idolo di un’epoca materialista e
superficiale. In effetti, oggi viviamo piuttosto in una cultura della
disumanizzazione del corpo. Sensibilità ed erotismo sembrano essere stati
stravolti, nei paesi industrializzati, dall’ambizione verso dimensioni sempre
più artificiali e virtuali, dall’uso di mezzi di comunicazione sempre più
impersonali e artefatti; dalla perdita, in una parola, dell’immediatezza del
genuino contatto umano. Il dilagare dell’utilizzo di droghe e la pandemia di
comportamenti sessuali aberranti (molto più di quelli descritti da Pasterius)
sembrano essere un segno dei tempi inquietante quanto inequivocabile – per
quanto la complessità di questi fenomeni sfugga ancora ad una qualsiasi analisi
esaustiva e alla piena comprensione del loro significato più profondo. Allo
stesso tempo, la rappresentazione mediatica e l’utilizzo comune del corpo stesso
sembrano aver raggiunto estremi che annichiliscono qualsiasi dimensione
autenticamente umana. Da un lato, i corpi anoressici e impersonali delle
pubblicità e l’imitazione di questo modello da parte della gente comune
corrispondono, di fatto, a una negazione della corporeità stessa. Il corpo,
privato di cibo e distorto nella sua immagine di unicità, desiderabilità e
normalità, si deforma, perde i connotati di organismo vivente, fino a
dissolversi nella negazione totale del tempo, della salute e della malattia.
Dall’altra parte, la pandemia di obesità patologiche e mortali che sembra aver
colpito sia i paesi civilizzati sia quelli in via di sviluppo è un segno
altrettanto inequivocabile dello smarrimento di un qualsiasi modello di
corporeità compatibile con la vita stessa. Schematizzando, si potrebbe sostenere
che, se il corpo anoressico è la rappresentazione della negazione del desiderio
attraverso il corpo, il corpo obeso è la rappresentazione della negazione del
corpo attraverso il desiderio. In entrambi i casi, visto che corporeità e
pulsioni sono due facce della stessa medaglia, si giunge alla perdita della
stessa identità umana.
In questo senso, l’uomo medievale a cui accennavamo all’inizio, si
sbaglierebbe di grosso credendo di trovarsi in un’epoca di ritorno al
paganesimo. Il culto del corpo dei pagani infatti, in ciascuna delle sue diverse
fasi, ha avuto uno sfondo spirituale, nel senso che era supportato da una
filosofia di vita, da un insieme di valori strutturati in una visione
condivisa della realtà e del destino dell’uomo. Il culto del corpo
contemporaneo, invece, non poggia su alcun tipo di base ideale, perché ogni
idealismo è stato confutato; è fine a se stesso, quindi sterile, e, di fatto,
autocontradditorio. È un culto del corpo in cui il corpo non viene usato,
non viene esplorato nella sua parte sensibile e carnale, non viene conosciuto,
concettualizzato, idealizzato. Droga e sesso a pagamento, non a caso,
rappresentano le modalità più utilizzate di conoscenza del corpo, e che, in fin
dei conti, non sono che una profanazione. Manca appunto il senso del sacro,
perché non vi è più una sacralità condivisa, nemmeno generica. E proprio questo
specifico elemento salta agli occhi leggendo il libro di Pasterius. Pur senza
disdegnare l’ironia e la leggerezza, Pasterius parla e mostra il sesso
trasmettendo un senso di sacralità che dà alla dimensione corporale, carnale e
sensuale del racconto una prospettiva feconda, non fine a se stessa. Come se
fare sesso non fosse solo una questione di piacere, ma anche di conoscenza e,
perché no, una possibilità di contatto con qualcosa di superiore; qualcosa con
un senso, un significato che va al di là della pura, cieca immediatezza. La
centralità della figura femminile di A’Isha, ribadiamo, sembra legata
indissolubilmente alla sacralità. E non solo: Pasterius, in un libro che tratta
di sesso, riesce a parlarci anche di etica, proprio come dovrebbe essere
se volessimo che il sesso e il corpo fossero inseriti in un imprescindibile
sistema di significati. Illustrando una delle foto che corredano il testo,
Pasterius dice: “Quando si è responsabili e rispettosi di se stessi – e dunque
di tutte le parti che compongono la nostra complessità – è perché esiste e
sussiste un’etica: e l’etica comporta il dovere di rinunciare all’ipocrisia,
alla vigliaccheria del nascondimento, dei travestimenti. Ci si mostra per quel
che si è, magari ricorrendo alle capacità d’un narcisismo virtuoso.” Qui,
riteniamo, Pasterius esprime concetti molto importanti, fondamentali: mostrarsi
con autenticità nel proprio corpo e nel proprio spirito è un fatto morale.
Ma se tutte le morali sono state delegittimate, se sono state svuotate di senso,
se sono state, in fondo, messe definitivamente a tacere, quale senso potrà mai
avere la capacità di mostrare, vivere e utilizzare autenticamente il proprio
corpo e il proprio spirito?
Questo, a nostro avviso, è stato l’errore dell’uomo contemporaneo, costruito
sulla base delle rivoluzioni degli ultimi secoli: ritenere che alla demolizione
dell’orizzonte concettuale potesse e dovesse corrispondere un’automatica
rivalutazione dell’aspetto materiale in tutta la sua ricchezza. Paradossalmente
ciò che è successo è proprio il contrario: la perdita della spiritualità non ha
liberato la carne, ma anzi l’ha imprigionata in una zona oscura di assenza di
significato. Pasterius, da buon uomo di altri tempi, col suo romanzo erotico ci
ha parlato del modo di vivere il corpo che dovrebbe essere il più naturale e
comune – se si vivesse in un’autentica epoca di liberazione. Il romanzo di
Pasterius può farci intuire quanto, in realtà, siamo prigionieri di un bieco
materialismo che, privo di fondamenta, non può che tendere a distruggere se
stesso. | |
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Recensione |
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