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Introduzione a
Dalla parola al silenzio.
La lingua dei diavoli nell'Inferno di Dante
di Marco Lazzerini
Fermenti
Editrice, Roma 2010.

Barbara Zandrino
Marco Lazzerini affronta coraggiosamente i gironi danteschi: ecco allora il
viaggio di Dante fino a «l’Amor che move il sole e l’altre stelle» (Par., XXXIII,
145) configurarsi anche come il viaggio della parola che si compie dalla sua
pronuncia alla sua deformazione progressiva, alla riduzione a puro suono con
l’avvicinarsi al luogo più remoto, fino al silenzio di Lucifero nella gelida
ghiacciaia di Cocito, per poi ascendere dalla riconquista della parola al
silenzio ‘plenitudinario’ dell’ineffabile bellezza di Dio di fronte a cui il
poeta dichiara inadeguatezza e impotenza («Da quinci innanzi il mio veder fu
maggio / che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede, / e cede la memoria a tanto
oltraggio», Par., XXXIII, 55-57) tanto da paragonare il suo linguaggio ai
balbettii disarticolati di un bambino «che bagni ancor la lingua a la mammella»
(Par., XXXIII, 108).
Perciò l’esegesi della lingua dei diavoli nell’Inferno procede, come indica il
titolo del libro, dall’uso del sign ifi cato e del sign ifi cante della parola
al suo scardinamento fino all’impossibilità ad essere pronunciata dal «vermo
reo» (Inf., XXXIV, 108), rappresentazione parodica della condizione d’origine
del più perfetto degli esseri creati. Si snoda dalla graduale degradazione
verbale all’assenza del verbo, con la sostituzione, nel punto più remoto dalla
mirabile visione, dell’orribile raffigurazione visiva, che si accampa con
l’incommensurabile proporzione del mostro dall’orrenda testa a tre facce, sei
occhi e tre bocche, nelle quali sono maciullati Giuda, Bruto e Cassio, i cui
corpi per sempre impediscono a Lucifero di parlare, e con la schifosa visione
della mistura di lacrime e sanguinosa bava e delle sei ali a modo di
pipistrello, che generano il turbine ventoso, sostituto estremo della favella,
rappresentazione del peccato più deplorevole, del male come negazione del bene.
Strutturata in cinque capitoli condotti lucidamente con un metodo intratestuale
e intertestuale, perseguito e seguito con il puntuale riferimento alle regole
della retorica e ai codici della letteratura, incardinati nella civiltà
letteraria del tempo, e con la scorta di una vasta bibliografia critica,
discussa e talora contraddetta, l’indagine si fonda sulle interpretazioni
teologiche e dottrinali dei padri della Chiesa e di Tommaso, sulla suggestione
delle sacre rappresentazioni e delle leggende medievali, sulle influenze
iconografiche e pittoriche, in particolare di Coppo di Marcovaldo e del sommo
Giotto, e affronta in primo luogo la questione teorica della rappresentazione
visiva e sonora dei diavoli, privati in eterno dell’amore di Dio, dibattendo,
per quanto
concerne la loro locutio, la contraddizione tra l’effettivo parlare dei diavoli
nella Commedia e l’affermazione di Dante nel De vulgari eloquentia (I, 2, 4),
secondo la quale i demòni conobbero ante ruinam suam la loro malvagità,
attraverso una speculazione assimilabile a quella angelica, che non può
considerarsi un linguaggio.
La lingua dei diavoli offre, nelle pagine del giovane e valente studioso, una
variegata casistica, teorica e pratica, che, al di là del linguaggio
retoricamente solenne di Caronte, Minosse, i Centauri, figure simbolo della
tradizione classica, aliena da quella dei demòni, fisicamente e moralmente
ripugnanti di ascendenza cristiana, cataloga le parole della demonologia
cristiana, da quelle stizzose e minacciose dei demòni della città di Dite, a
quelle basse e triviali dei diavoli di Malebolge, dal «linguaggio che a nullo è
noto di Nembrot» (Inf., XXXI, 81) all’assenza del verbo nella ghiaccia di Cocito.
Nell’analisi lessicale, morfologica e sintattica, stilistica, metrica e retorica
della lingua popolare, ma ‘loica’ e perentoria, di «un de’ neri cherubini»
(Inf., XXVII, 113), che, in una sorta di mistero popolaresco, contende a San
Francesco l’anima di Guido da Montefeltro, di segno opposto e capovolto alla
parola del diavolo sconfitto nell’episodio purgatoriale di Bonconte, figlio di
Guido, nell’esegesi della parola plebea, gergale e grottesca, intensamente
espressiva, dei Malebranche dei canti XXI e XXII, ricca di voci dai suoni duri e
di rime aspre e chiocce, Marco Lazzerini discute questioni fondamentali con una
intelligente ricerca metrica e con fitti riferimenti alle tradizioni poetiche
comico-realistica, giullaresca, fabliolistica che tramano il testo dantesco: l’idea di
Comedìa e il significato del comico del sacro poema, che il poeta aveva
sperimentato con diverse influenze nella sua produzione in rima e soprattutto
nelle tenzoni, il valore della patina poetica e linguistica popolare e toscana,
in particolare lucchese, di questi canti, in relazione alla tematica gestuale e
gastronomica, alla nominazione e alla nomenclatura dei diavoli.
Per spiegare il linguaggio sconosciuto del gigante Nembrot, esempio di superbia
e di rivolta, responsabile della costruzione della torre di Babele da cui derivò
la confusione dei linguaggi, Marco Lazzerini ricorre alla semiologia della
musica e ipotizza innovativamente che il significato derivi dalla sequenza di
due parole tronche, una piana, un’altra tronca e infine una piana, nel verso «Raphèl
maì amècche zabì almi» (Inf., XXXI, 67), dalla posizione dell’accento tonico,
insomma, che realizza un ritmo e un proprio senso, in grado di sussistere da
solo, senza l’ausilio di un significato estrinseco, cui fare riferimento, che
comunica ed esemplifica ira, minaccia, negatività.
E giunto al livido silenzio di Lucifero, ripugnante immagine del male radicale,
antitetica alla sublime rappresentazione miltoniana di Satana, Marco Lazzerini
contestualizza la morte della parola in relazione a due luoghi della Commedia: al
descensus trionfante, come nei mosaici e nelle pitture medievali,
di Cristo negli inferi (Inf., IV, 52-63), descritto esaustivamente nel Vangelo
apocrifo di Nicodemo, e alla discussione soteriologica del Paradiso (VII,
16-51), in cui dell’angelo maledetto, marginale nell’economia della salvezza,
non si fa menzione. Perciò nell’ultimo canto dell ’Inferno, in contrasto con le
Sacre Scritture e con le disquisizioni filosofiche, con le opere didattiche di
edicazione religiosa, con i misteri medievali e con i racconti popolari,
Lucifero non ha diritto di parola. L’impossibilità di parlare riscrive il
silenzio delle ombre virgiliane (Aen., VI, 432-433; 264-267) e con la carenza di
luce porta alle estreme conseguenze della definitiva perdita l’uso distorto e
traviato della lingua dei dannati e dei diavoli, opposta alla locutio al
servizio della verità, della giustizia, del volere divino. La morte della parola
nella gelida landa di Cocito diviene il segno rovesciato dell’unica vera parola,
che è quella divina, il Verbum vivicante; diventa l’emblema del non essere,
delle tenebre, opposto al bene divino, che «solo amore e luce ha per confine»
(Par., XXVIII, 54).
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