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Per il suo “esordio”, Annamaria Ferramosca ha scelto “il versante vero” della ricerca al fondo delle immagini e delle cose, di un mondo intimo tra favola e naturalità lirica, elementi esperienziali d’insieme e dizioni di lingua dell’intimità. Una scommessa su se stessa e – quindi – un simultaneo azzardo per meglio intendersi con il verso e la vita. Sebbene la poesia non abbia paradisi da far scorgere ad alcuno o far godere a qualcuno nell’interrogazione pubblica o segreta, l’itinerario che porta ad essa è “paradiso” e l’Autrice sostanzialmente scova posizioni aperte di sguardo privato, un disarmato e lieto disordine, un laboratorio di esiti mai impazzito e neanche neoelegiaco, ma un duttile esporsi all’assedio (e alla pista) del proprio essere, così come in una solitudine di estri distesi.

C’è in tutto questo idillio della verità, dell’irregolare, del furore discreto, un progetto di significazione del conflitto interiore che testimonia sia del buon flusso simbolico, sia del grado di emotività inflitto al ritmo ispirativo e intellettuale tout court. “Incanti di cui chiedo decodifica”. Accostando alla serie di eventi mai numerati, quell’inestricabile rapporto del “tu” colloquiale con il senso della confessione e della conferma del principio espressivo tutto personale. Anche perché sono interni (se non libertini) quegli slittamenti della fantasia, dei discorsi, dei propositi che quasi lei stessa teme le ellissi sfuggenti e incontenibili, quasi debbano diventare spine per il testo che fluisce. “Metti il canto veloce | di un tramonto invernale che accarezza | montagne e antenne e trascina | comete di Natale rassegnate | a perdere incantamento”. O qui: “Grande è il frastuono, | come il mio rimpianto. || Da sempre so che ascolti | il fruscio della vita in mulinelli | e registri anche i suoni | vorticosi dell’alba | e i tumulti segreti della notte”. Così, la limpidezza della voce (mai rutilante o grave) elabora esitazioni, obbedienze, adagi cospicui attraverso la lingua della sua libertà che diviene valore fenomenico del dettato e corrispondente a richiami multipli, agli ascolti effettuati nella medesima ricerca (l’eccellenza della memoria, l’equilibrio augurale di una riflessione, la descrizione in forma di evento tecnico dello stile, che già diventa in più casi vocativi, giustificazione del suo continuum, leggibile in più istanze forbite e voluttà di agglutinamento del magma detto “poetico”).

Più che dal limbo di un esordio, Annamaria Ferramosca sembra nascere (e rinascere) dalle responsabilità della previsione, proiettiva di ciò che non vacilla o sa di velleitario, ma si inserisce provocatoria nel clima medesimo delle potenzialità efficaci e – forse – senza divieti per il progress. I materiali di varia sortita, in più “tracce” e “fuochi” ne identificano le intenzioni “native” e persino gli agguati, in apparenza senza regole lessicali eccentriche, in effetti significanti assunti per corteggiare il viaggio che già compie negli spazi e nei tempi di un’elaborazione autobiografica e civile, alla scoperta di epifanie non solo apparenti, e muovendosi coraggiosamente nel “deserto del reale” come direbbe Baudrillard, dove il disegno del verso non pretende più di contenere l’artificio (che fa molto XX secolo), bensì di riattraversare i fiumi e i fiumi di una favola corale inesplosa e senza capogiri per l’itinerario meno sterile. Anzi a contatto con una favola felice ed acre, che però è sempre più rintracciabile nei desideri dell’origine di istituire i sussulti dell’umano, intanto qui riscontrabili in più fermenti e nel rovente guscio della loro oggettività.

Recensione
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