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In questo libro scritto a più mani da donne, la postfazione di C. Lapucci dice che “Pissera” è parola sdrucciola ma subito dopo precisa un accento acuto sulla ‘e’, avvalorando quindi la tesi del semiaccento che fu già del Contini. Di mio potrei aggiungere che “pissera” esordisce con una ‘i’ stretta ed ima laddove “passera” lo fa con una ‘a’ aperta e solare. Tuttavia, pur non disponendo della pindarica ironia toscana ma di quella pedestre basso-pavese, ed essendomi io guadagnata sul campo i galloni di esperta linguista, vorrei indicare, mi consentano, il Lucarinetti – De Bozzoli (Dizionario Labrone e della Toscana tutta, Livorno 1613), in cui si legge: “Pìssera o Pisséra, dal latino pixis indi dal greco pyxis, da pyxos, bosso, ad indicare un rispetto scostante, da non dileggiar ma da tener lontano, olezzo di camposanto”. Invece pare più forzata e un po’ di parte l’ipotesi del longobardo Otto Willbuste Groesse in “De lengua barbarorum”, Papie anno millesimo sexagesimo nono ab Incarnatione: “ille dikeno ‘Pissera’, in antiquo Pitsara, a jettar fora de impeto, a reiectare, de dona fausa de prospecto, proebenda ad Sculdascium”.

Trascurando queste corbellerie va detto che il libro è scorrevole e spassoso. In alcuni casi pecca forse d’indulgenza, mi pare, rendendo quasi appetibile la Pissera in un confronto con la realtà media delle consorti, almeno da parte di alcuni mariti; forse le autrici hanno pensato che il libro sarebbe stato letto essenzialmente da donne fors’anche pissere, anche se non disposte a riconoscerci mai. Notevoli i brani a voci incrociate detti “identikilt”, che ripropongono l’antico discorrere delle donne intente al cucito, magistrali le litanie, le sole che conosca in grado di competere con quelle milanesi delle porte. Quello di cui si sente la mancanza è l’opinione della pissera riguardo alle diverse proposte sulle pari opportunità presentate da più parti, sarebbe stato interessante poiché ad una valutazione superficiale esse parrebbero corrispondere ad una fetta non minoritaria delle donne. Ilare ed atroce insieme, eppur vera, è la descrizione del suicidio della pissera pro domo sua, molto comune e quasi sempre fallito, con la minuziosa elencazione di tutto ciò cui la protagonista deve attendere per poterne rendere conto a tragedia scampata.

Un solo brano, “La vera moglie”, ha invece mosso il mio risentimento: quell’amore di contrabbando, minimalista e piccolo borghese, nella sua ostinata conferma di sé mi è parso somigliare un poco all’amore eterno dei poeti e dei santi. Non poteva essere che così, odio quelle donne cinematografiche che non sopportano di dare ai figli il cognome del marito/padre, che quando salgono in ascensore con un uomo riescono a farsi possedere nello spazio di due piani, che non si capisce perché mai si siano sposate, e sempre con uomini belli ricchi e di potere. Sarà l’invidia (dicono sia femmina) ma io ho avuto più mariti e non sono riuscita a tenerne alcuno, eppure so di essere molto lontana, ma non credo tanto di più delle autrici, dalla moglie bella intelligente indipendente e quant’altro.

Recensione
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