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Il titolo assegnato alla
raccolta è volutamente fuorviante, eppure indicativo della poetica dell’autrice.
La chiarificazione arriva allorché il lettore riesce a intuire le ragioni e il
senso d’una tale tendenza a sviare, a sgusciare via, esattamente come accade
nelle suggestive metafore dipinte da Lidia Are Caverni, quando il “vibrare |
convulso degli uccelli (...) | irraggiungibili smarriti lontano” si accompagna
alle “sarabande notturne dei venti”, ove si agitano “foglie morte marcescenti |
assenti dimenticate”. È una poesia della natura, colma di brucianti descrizioni
legate al travaglio quotidiano dei viventi, soprattutto di quelli appartenenti
al regno animale e vegetale, e quindi non reca la benché minima traccia o
reminiscenza di solennità religiose, soprattutto se pensiamo al rito cristiano a
cui si riferisce il titolo. Una delle poesie esorta espressamente, senza mezzi
termini, a mettere da parte ogni tradizionale festeggiamento: “Il giorno
d’Ognissanti dimenticalo”.
Esiste, tuttavia, una
particolare forma di religiosità nella raccolta – diversamente, non avrebbe
senso l’intestazione – ed è, direi, di tipo pagano, se vogliamo ateo. La
poetessa crede nelle leggi misteriose, ancestrali e terribili della natura, si
sente terra legata alla terra, parte del perenne divenire della materia,
“nell’eterna dilatazione che prelude il sonno”.
Tutto ciò si
traduce in immagini di muta ed anche – se vogliamo – risentita preghiera,
nell’invito all’oblio, ad abbandonarsi al mistero cosmico che fa chiudere gli
occhi che “gravano di sonno come la terra”. Perché, spiega Are Caverni, “io
nacqui dove il volto | severo che mi avvolse di tenero | fardello ombra leggera
che sussurra | anch’io amai come fossi vita”. Anche nelle successive due sezioni
del libro, rispettivamente “Erbario d’autunno” e “Frutto rosso aspro di sapore”,
riscontriamo lo stesso amaro riflettere sul “rapido fluire” delle cose e del
tempo, ove si infrange, per rinascere e rinnovarsi, “il fare della materia
inerte soffice”. Forse è nella poetica di Lucrezio l’insegnamento più prossimo
alla nostra autrice: in quella maniera di intendere la natura provvida, e non
matrigna, per quanto la fede nella culpa naturae, a cui bisogna comunque
sottostare, produca un tremendo furor privo di estasi, di qualsivoglia idilliaca
illusione.
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Recensione |
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