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Angelo Lippo definisce "pretesto" la molla interiore che lo ha spinto a raccogliere in questo volume "alcuni interventi critici sulla poesia e su poeti del Mezzogiorno". Una motivazione messa in moto dal dibattito socio-culturale in corso, a cominciare dalla recente pubblicazione – fa notare l’autore – del saggio, dal titolo provocatorio, di G. Viesti "Abolire il Mezzogiorno".

In tale contesto caratterizzato dai cronici "ritardi accumulati", la letteratura rappresenta non solo un "valore aggiunto", ma qualcosa di più: è testimonianza costante, viva e palpabile, "dell’attenzione ai nuovi linguaggi e in linea con la grande tradizione del Paese intero".

I poeti al centro del presente studio critico sono quelli con i quali "la frequentazione culturale è stata più costante nel tempo", ma Lippo si riserva di recuperare in futuro altri autori del nostro Sud, ugualmente prestigiosi e meritevoli.

Il primo ad essere trattato, in rigoroso ordine alfabetico, è Ignazio Buttitta, uno dei giganti dimenticati della poesia italiana del Secondo Novecento, probabilmente perché poeta soprattutto dialettale. Ma "il dialetto è la prima lingua": "In ogni dialetto – spiegò Buttitta in un’intervista all’autore – c’è la storia di un popolo, i sentimenti e la poesia." Ricordando gli incontri avuti con Ignazio, Lippo ne esalta "la coscienza dell’essere poeta", non come "fenomeno di staticità": la sua è una poesia che "vibra di un dinamismo interiore che scava dentro e fuori la complessa situazione del proprio mondo etnico, pur partendo da esso e muovendosi in esso."

Di Corrado Calabrò, Lippo individua il "mix poetico e metapoietico difficilmente classificabile, metabolizzabile e assolutamente non omologabile". Ed anche Calabrò è un poeta "isolato", che ha subito – scrisse Maffia – "l’ostruzionismo accanito, se non l’ ostracismo, di alcuni accademici e scrittori".

Danilo Dolci è poeta impregnato di una spiritualità "pudica": la sua poesia "si giustifica nell’atto in cui è concepita. (…)" Il suo verso "è sangue che palpita ad ogni avvenimento, (…) la sua realtà è di edificarsi nel buio e nella luce".

Daniele Giancane avverte il peso della solitudine e dell’incomunicabilità del poeta. In una intervista a Lippo, dichiara: "Se il poeta vuol incidere, organizzare, produrre cultura (come credo sia d’obbligo soprattutto al Sud) deve lavorare nei gruppi, divenire animatore culturale, confrontarsi, uscire dalla penombra del suo studiolo e della sua ispirazione per andare incontro al mondo." La poetica di Giancane risente molto di questo incontro-scontro con la realtà: dal peso di una gretta e opprimente quotidianità alla dissoluzione di un sistema ove impera il dio-denaro.

Vincenzo Jacovino si serve della metafora non solo come "invenzione letteraria", ma come "peso e istanza provocatoria" affinché qualcosa possa cambiare nella dimenticata terra della Basilicata. Per far ciò, occorre abbattere innanzitutto gli steccati che gli intellettuali asserviti al potere tendono a innalzare attorno alla "cultura istituzionalizzata".

L’eclettico Carmine Lubrano "scombina, virgola, spunteggia, arricchisce, annota di simbologie iconografiche lo spessore creativo, destabilizza la misura per crearne una a dimensione propria (…), la sua è una scrittura aperta ad ogni proposizione".

Dante Maffia è stato in grado di "soffocare quell’agiografismo culturale, sociale ed umano, nel quale spesso restano imbrigliati anche i più sinceri cantori del Sud" attraverso uno "scorpamento della componente lirica" e la rinuncia al "puro registro delle cadenze, dei ritmi, dei fulgori immaginari e fantastici".

Raffaele Nigro confessa di scrivere "per irridere le false coscienze", poiché "l’inconscio ha trasformato l’esigenza della scrittura e della comunicazione in esigenza di gioco, di ironia". Nigro definisce se stesso "un gargantua avido di esperienze di scritture molteplici".

Al contrario, Michele Pierri "guarda all’essenziale, scava nell’essenziale", giudicò Ferruccio Ulivi. La sua poesia è la manifestazione di una totale "temerarietà di uomo" che ogni volta "varca la soglia della letterarietà".

La parola di Antonio Spagnuolo "non si concede mai l’evasione spicciola né tantomeno si costruisce su affaticate spalliere immaginifiche". Il suo "affondo è limpido", conclude Lippo, lontano da "ogni sorta di compiacimento retorico".

Importantissimo per la validità e la ricchezza dei contributi critici forniti, questo saggio è la testimonianza di una fenomenale e "corazzata" militanza non solo letteraria, di un "indomito coraggio di denunzia e di battaglia" – afferma Paolo Di Stefano nella Lettera-Prefazione – davvero senza pari.

Nota di lettura
a cura di Luciano Nanni
in Punto di Vista nr. 37/2003
Saggistica. Il volume raccoglie una serie di interventi che mostrano sia per l’esemplarità dei testi che per gli autori esaminati un Sud culturalmente vivo, con voci tra le più originali del recente panorama poetico: Michele Pierri (1899-1987), Ignazio Buttitta (1899-1997), Danilo Dolci (1924-1997); inoltre C. Calabrò, D. Giancane, V. Jacovino, C. Lubrano, R. Nigro e A. Spagnuolo. Brevi ma significativi saggi – a volte in forma di interviste – che danno immediata misura del personaggio trattato: un contributo importante al fine di realizzare una storia della letteratura più completa e credibile.
Recensione
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