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Dino Manzelli
individua – nella prefazione – nell’“occasione smarrita d’un amore
adulto, svanita sul filo dell’incertezza” il filo conduttore simbolico su cui
poggia il discorso di Zanon. A mio avviso, invece, il vero leit-motiv è
dato dalla solitudine del poeta, dalla sua diversità, che lo
spinge ad interrogarsi continuamente sul significato del suo lavoro e sulle
cause del suo innamorarsi solo. Frequenti e palesi sono i riferimenti a
tale condizione, in un “crescendo” di confessioni sempre più incalzanti e
toccanti: “Io scrivo, perché non potrei fare altro!” (VII); “Chi ci sostiene
lungo il cammino noi poeti?” (XI); “Vorrei tanto che la gente | mi cercasse di
più attraverso il libro” (XIV); “Al poeta non resta altro che morire!” (XIV);
“Cosa farò domani | non lo so: | abbandonare la dura legge dello scrivere?”
(XV).
Le riflessioni
sulle ragioni più intime del fare poetico si intrecciano al dialogo ideale con
la donna amata: ma che si tratti, in effetti, di un monologo fatto di ricordi
ondeggianti fra sogni e disillusioni è lo stesso poeta a spiegarcelo. Così,
attraverso una fitta trama di episodi – penetrante ed ossessiva, eppure lieve ed
evanescente come la foschia della laguna veneta – ci è consentito ricostruire,
in un certo senso, la “storia” di questa contrastata passione.
Ad avviso di
chi scrive, è lo status di poeta a determinare l’infelicità sentimentale
ed affettiva di Zanon, e non viceversa: le sue domande (senza risposta) circa il
proprio destino (e quindi della stessa poesia) sono visibilmente più palpitanti,
inquietanti e ultimative rispetto al rimpianto per quella vicenda d’amore,
perduta probabilmente a causa dell’irrisolvibile dissidio, dell’eterno dualismo
uomo/poeta.
Non tragga in
inganno l’auspicio finale formulato da Zanon: “Può pur morire il poeta, ma
l’uomo no, | lasciamolo vivere!” (XV). Un accorato desiderio che potrebbe,
alfine, anche realizzarsi – a volte succede, anzi auguriamo all’autore il
massimo della felicità – ma per ora (cioè nel momento in cui egli scrive) la
realtà è ben diversa, ed è rappresentata dalla sconfitta dell’uomo in quanto
poeta: a confermarcelo è lo stesso auspicio di cui sopra.
Intesa “come
ultima àncora, la vera speranza si tramuta in catarsi” (Manzelli), sarà – in
definitiva – proprio la poesia a restituire il gusto della vita, come accade a
quel “passero al tramonto | pronto (...) per un altro canto” (V): Leopardi
docet. Una bianca
alba, appannata e opaca. Non rosata né serena, ma pur sempre un’alba
nell’attesa della luce e della giusta quiete.
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Recensione |
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