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L’u-topia della “fedeltà al presente” costringe ad una “apparente, faticosa, maturante contraddizione (e) dialettica – osserva Mariella Bettarini nell’introduzione – fra “la parola non compresa” e “un’essenza senza nome”, in un incessante “corpo a corpo con la parola”.

Lucianna Argentino decide di “dubitare” (perché questa è l’unica scelta possibile): ma il dubbio vive in lei inespugnato, inabissato, imploso. L’autrice non drammatizza, non subisce, non esaspera il proprio status, anzi per lei questa diviene “la condizione più autentica per scrivere e dello scrivere” (Bettarini): “Sono di quelli che fanno domande ma non si aspettano risposte perché la cercano sulla propria pelle che si fa carta velina...”.

Un tale “progetto di comprensione (esistenziale e/o espressiva)” – come scrive Plinio Perilli – non può essere che rivolto, pertanto, alle fonti della sperimentazione linguistico-letteraria, laddove regna il “gesto puro, senza pensiero, (...) mai nato ma solo concepito”.

Né l’idealità dell’u-topia può cancellare le più profonde ferite provocate dalla “lama dell’accaduto” (da un verso di Mario Luzi): è un “ac-caduto che accade anche non accadendo” (Bettarini) proprio perché il presente così tenacemente interrogato (non inseguito) si compone di una infinità di gesti mai nati, che però colpiscono e penetrano attraverso la “reticenza del tempo (...) in uno spazio senza nome né presa”.

È un canto prolungato, implacabilmente fermo nel porre interrogativi tanto basilari quanto insolubili, che Lucianna Argentino sembra appagata dall’aver semplicemente sollevato: “Dall’essere coscienziosamente lontani (...) | Privi di primogenitura, di beni da moltiplicare, | cosa dare in cambio per quanto ancora da dire | e per il molto di là da venire? Cosa avanzerà di noi? | E dunque cosa raccoglieremo perché nulla | vada perduto?”.

 
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