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Angelo Lippo, direttore della
collana “Delphinus”, di poesia contemporanea pugliese, nel formato della
plaquette, ne avvia, proprio lui, con Calice, la collezione.
Nelle nove sue composizioni
poetiche che connotano il librettino, al di là di un’indiscussa koinè,
contraddistinta da un modus di scrivere in versi di notevole interesse estetico
e linguistico, si è attratti soprattutto dal dialogo sui generis dal quale, in
prevalenza, si rispecchia l’autore, autentico poeta.
Tuttavia la forma dialogica di
Lippo è solo apparenza. Più precipuamente si tratta di un soliloquio indiretto,
rivolto ad un interlocutore che però è silente, sempre silenzioso, passivo
ascoltatore. L’interlocutore-uditore non è che un’entità sfuggente,
assolutamente inafferrabile. Non ne viene svelata, in nessuna circostanza non
solo l’identità ma addirittura il sesso oltre alle varie altre connotazioni
personali. E si badi bene che quest’ipotetico orecchio che ascolta il poeta è
qualcosa di più che un’elusiva immaginazione. È un ‘qualcuno’ ben definito
sicuramente nella mente di Lippo. Dalla percezione che se ne ricava, in un
contesto in cui egli sembra parlare a se stesso, si ha il dubbio d’avere a che
fare col proprio Io (“e solo il tuo sorriso appartiene alla luce” p. 5; e “La
tua unità è il suono degli angeli”, p. 10). Ma poiché se ne trae conseguenza da
un insieme alquanto ambiguo, potrebbe valere l’ipotesi parallela, nella quale si
identificherebbe l’Ente Supremo, Dio, che alle cose, poesia compresa, fornisce
il sale della trascendenza, anch’essa di grande impatto estetico.
Oppure potrebbe essere un
dialogo, sempre a senso unico, esternato ad una donna (“Ho troppo girovagato |
prima d’incontrarti”, p. 8).
Ulteriormente, potrebbe essere
emulazione del “tu” montaliano (“in me i tanti sono uno anche se appaiono |
moltiplicati dagli specchi” – da Il tu).
La rincorsa ad un tale motivo
di persuasione, continuamente sfuggente, ha il valore di una calamita che attrae
il fruitore della poesia di Lippo.
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Recensione |
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