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Il motivo che Carla Baroni ha
preso a modello per lo sviluppo dell’opera è “il delitto di Cogne”. Nella
pubblicazione in esame, della consistenza della plaquette, la forma
drammaturgica all’insegna della lapidaria sinteticità assolve a fulmineo,
univoco polo d’attrazione. E l’intensità interiore, oltreché stilistica, ne
arricchisce la poetica.
Nella fattispecie si tratta di
un assolo, monologo intervallato dal coro, della madre che, in un’intima
confessione, dal valore dell’autocommiserazione e nel contempo dell’
autogiustificazione, che nemmeno per sogno può essere concepita come
autocastigo, cerca di percepire dalla sua ambigua natura umana un minimo di
comprensione. Francamente, per quanto si voglia essere caritatevolmente umani,
quella comprensione è difficile concepirla! È senz’altro più facile sentenziare
una condanna. Specie per una madre, l’infanticidio, premeditato o involontario,
è, più di qualsiasi altro crimine, delitto incancellabile. Dramma esistenziale,
duraturo, un peso da portare fino alla fine dei giorni nella coscienza.
Sovrastante, incombente macigno.
L’endecasillabo, che struttura le tredici parti del breve dramma qui
rappresentato, richiamando con centellinata progressione quel degenere
assassinio, conduce il lettore nei misteriosi meandri cerebrali della criminale
madre. Il coro è filtro, bilanciere di giustizia; assomiglia vagamente alla voce
d’una Procura indagatrice. Ad onta di quante attenuanti possano pensarsi a
favore della madre, non può rinunciare a condannarne l’atto blasfemo: “tu non
conosci ‘pietas’… | Tu lo uccidesti, povero bambino, | un fiore rosso sul
cuscino bianco | … Nemesi ci sia”. Basterebbe affidarsi ad un istintivo spirito
materno, da una parte, ed al senso di sopravvivenza ispirato alla continuità
della specie, dall’altra, per poter chiedersi a che cosa valga il doppio
imperativo della madre, che titola anche l’opera: “Mi giudichi sol Dio e mi
perdoni”.
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Recensione |
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