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“Ogni passo un giorno”: la
vita vola via, veloce, fulminea, e a noi uomini lascia spazio, finché si voglia,
a rimeditare sulle azioni compiute, a scrivere, praticamente, il diario dei
ricordi. Le nostre reali memorie. Ma possono altresì essere memorie
aggrovigliate nella fantasia, eventi ingarbugliati nell’ideale. Spazio dunque
tanto, a volontà; ma tempo poco, freneticamente misurato. Appunto perché
divorato dalla sua voraginosa corsa. È il nesso esistenziale che permette
l’intarsio della narrativa di Fosca Andraghetti, com’evidenzia la raccolta di
prosa in disamina, sei racconti brevi.
Le trame hanno genesi da una
fantasia che trova sbocchi, sviluppo e conclusione tra gli eloquenti
addentellati dell’esistenza, tra le sue miriadi di possibili combinazioni.
L’essere nelle sue sfaccettature impensabili ci viene in qualche modo rivelato.
Cosicché ci si appresta a conoscere l’esperienza del non-essere, che invece
diviene potenzialità e finanche vera essenza. La vita e la morte o anche la
coscienza e la sua incosciente contrapposizione (cfr Il filo delle rondini),
il brillio di certe ludiche circostanze o d’altrettali aneddoti (Il cappello
pestato) o taluni periodi di disperazione quotidiana (Il castello di noi
dispersi), l’equivoco – in buona fede o in mala fede – (La voce) ed
il casuale incontro (L’appuntamento) sono tutte alternative, o altrimenti
attenuanti o anche scappatoie, di una vita ordinaria, varia, ma in definitiva
mutata dall’intrusione di un momento determinante che marca l’andamento
prevalente dell’esistenza. Un’esistenza che denota costante imperfezione,
insoddisfazione, che sembra lasciare il sigillo angosciante del dolore. Certezze
nessuna: unicamente la consapevolezza di non essere consapevoli neppure della
propria provenienza. I nostri genitori chi sono? Sono davvero quelli che
conosciamo? Non sempre. È quanto capita nella letteratura di quest’Autrice (Lo
specchio della vita), che riesce a farsi interprete del mistero del nostro
vivere.
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Recensione |
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