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Nella glassa plurimediale che avvolge la società sempre più aggrovigliata e iperglobalizzata nella quale viaggiamo, più ancora che in passato la scrittura poetica si trova a interagire con i più diversi canali comunicativi: a volte ne viene soffocata, altre volte invece ne esce vitalizzata.  Per Artaud, ad esempio, il teatro è una forma di “poesia totale” in cui il ruolo della parola poetica non può essere scisso dall’impianto scenico-spettacolare senza che essa perda in qualche modo la sua forza. Anzi, secondo Artaud, la parola poetica, per mantenere la sua forza, ha bisogno in un certo senso di appoggiarsi alla complessità plurale dei linguaggi. Ma questo non è valido in assoluto: se la parola è tessuta su una solida ed autentica base energetica, allora anche una poesia scritta per il teatro o comunque concepita all’interno di una situazione teatrale, può reggere alla prova della lettura “nuda”, anzi può forse meglio caratterizzarsi, prestandosi a una penetrazione più verticale.

È quanto succede con Imperdonate, rappresentato in anteprima al Giardino del Ciliegi di Firenze nel 2002 con le voci recitanti delle attrici Rosanna Gentili e Giusi Merli e con l’intensa interpretazione di Sabina Cesaroni. Anche chi non ha assistito allo spettacolo, leggendo il testo ora pubblicato in volume, può accostarvisi cogliendone pienamente la sostanza. Direi anzi che in un caso come questo in cui la parola poetica mantiene altissima la corda della sua specificità, proprio attraverso l’esperienza radicale della lettura muta, (cioè quella che si compie nel corpo a corpo silenzioso e privatissimo fra l’occhio e la pagina) il flusso comunicativo può farsi più pieno e profondo. A volte l’occhio che legge (e l’intelletto ad esso collegato) può svolgere un ruolo più attivo dell’orecchio, puntando dritto verso la profondità e concentrandosi verso una sorta di canto interno, ri/sonanza interiore. Tramato di rimandi raffinatissimi tra suono e senso, il testo di Liliana Ugolini si presta ottimamente a questo tipo di esperienza.

Sei personaggi femminili, stampati nell’immaginario collettivo come emblemi di donne eternamente inchiodate al ruolo di colpevoli (Eva, la Donna di Don Giovanni, Medea, Anna Karenina, Sherazade, Antigone), assumono corpo, ma si sciolgono essenzialmente in un dolce sconquasso di parole, si fanno liquide forme, mettendo a nudo la loro condizione di “imperdonate” ma anche in un certo senso di “imperdonabili” (in quanto se si gioca con le forme della letteratura e dell’ arte non rimangono armi né per condannare né per perdonare).

Un incalzare di domande: «Come recuperare, accedere allo spazio | d’una ovatta che mi lasci pensare? | Come m’affondo e affogo? ». Squarci di riflessione aperta: «Ci conosciamo? Siamo l’un l’altro | uno e più di cento». Momenti di densa melodia: «Lei volle coralità grecale | e sull’ottava del sì | lasciò ascissa la scia».

Sia come sia, questo libro di Liliana Ugolini, per quanto esente da teorizzazioni filosofiche, ci mette in contatto con una delle ansie più radicate nella condizione umana: l’ansia del perdono, il sentimento angosciante della colpa, che dai tempi remoti della Bibbia a quelli più prossimi della psicanalisi ci attraversa come una bruciante meteora.

Recensione
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