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L’elenco tende ad allungarsi sempre di più. Appena tento di mettere la parola “fine”, subito giunge sulla mia scrivania un altro testo, utile alla completezza critica. Sto parlando di un mio studio sempre in attesa di essere ultimato, relativo al perché gli artisti dall’antichità fino ai nostri giorni sono attratti dalla morte al punto di preferirla alla vita, in parole povere “Il suicidio come arte”. Non conoscevo i versi del portoghese Mário de Sá-Carneiro, che a soli ventisei anni decide di togliersi la vita, all’Hotel de Nice di Parigi, proprio come fece Cesare Pavese, il 26 aprile del 1916, ingerendo della stricnina.

Una vita fatta di durezze e di stenti, attraversata dal lampo della poesia, quella di Mário de Sá-Carneiro, che non trovò al suo fianco amici, all’infuori di Fernando Pessoa, che lo ebbe in una certa qualche considerazione. Tutta la sua vita è “contraddistinta dalla morte. Una presenza, non solo metaforica, che ci può dare la chiave di lettura dell’intera attività del poeta”. Così ne parla Alessandro Ghignoli nella sua “nota al testo”, quale curatore e traduttore della plaquette Quasi e altre poesie, pubblicata nella collana “acquamarina”, dalle edizioni Via del Vento di Pistoia.

Sin da “La partenza” è facile intuire il comune denominatore della sua poetica, scossa da improvvisi tumulti, da insofferenze precoci, da impulsi di ribellione, che lo pongono nella condizione di allertaggio continuo. Una inquietudine lo pervade e lo porta ad anelare un “desiderio di fuga”, ma ogni volta il mistero del mondo lo blocca ed è costretto alla rassegnazione sconsolata: “Il mio destino è un altro – è alto ed è raro. | Solamente costa caro: | la tristezza di non essere mai due…”. Questo sentimento della solitudine lo assale e crea una marea di perplessità: “Per me è sempre ieri, | non ho oggi né domani: | il tempo che agli altri fugge | cade su di me fatto ieri”. Uno sbarramento alla vita e alla felicità che il poeta si trascinerà dietro senza aver la forza di reagire. Tutto sembra insormontabile. La ferrea legge dei giorni lo sottopone a prove, dalle quali ne esce tramortito e sempre più solo.

La lirica che dà il titolo alla raccolta (“Quasi”) ha il timbro inappellabile di un testamento spirituale, quando ammette che: “Per riuscire, mi è mancato un colpo d’ala…”, dal quale non si salva neppure tentando la strada dell’ironia, che ha più il senso di una sconfitta, quando parla della sua “Fine”: “Quando morirò battete sui barattoli, | fate salti e capriole | schioccate in aria le fruste, | chiamate pagliacci e acrobati”.

È la resa amara dei conti di un uomo che ha rinunciato alla vita per far vincere la morte. Ma la poesia si prende sempre la sua rivincita: è viva e sconfigge la morte terrena.

Recensione
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