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L’autore, in quarta di
copertina, esordisce con un suo brano poetico, in tono di rivolta: “Ho sperato
invano che le mie | inquietudini svanissero con gli anni | ma questa volta ho
deciso di non | strappare l’erba cattiva che si | ostina a crescere dentro di me
| nonostante il passare del tempo, | e l’averla messa su carte mi aiuta a
pensare di essere rimasto me stesso”. Egli vive a Bondeno (Ferrara). Si
interessa a tutto ciò che riguarda la scrittura. Ha trentuno anni. E, in queste
pagine, ci presenta trentacinque sue liriche, per le quali, in una nota (p. 45)
conclusiva, egli esordisce dicendo che la sua raccolta die “nasce sul campetto
coltivato dal più ordinato dei contadini, sul terreno che è la mia vita,
squadrato come tanti se ne vedono dalle mie parti, tutti uguali, belli,
ordinati, di cui un genitore può andare ben fiero; la vita di un trentunenne
ormai fatta di lavoro e di poche passioni superstiti al tritatutto delle
responsabilità...” Donato Di Stasi, il prefatore, chiarisce che si parla di una
poetica del quotidiano, vissuto come ispirazione e luogo di scrittura.
In effetti, si tratta di un
libro che segna l’esordio di un giovane che dichiara di credere nei valori dello
spirito e dell’intelligenza, quindi, nella parola che si fa voce dell’anima,
espressione di un riservato canto interiore, freccia di un colloquio per cui
l’autore stesso riesce a porsi, sia pur relativamente, in rapporto con quel
mondo circostante che sembra escluderlo, eludendolo.
La costante di un
insopportabile grigiore del quotidiano vissuto e ristretto nei margini di un
piccolo ambiente, in quella che amiamo definire genericamente la società dei
consumi, tormenta Andrea Costa, lo rimpicciolisce nei termini di un dolore senza
riparo e senza misericordia. Sicché “l’erba cattiva” della sua reazione
piuttosto violenta ad un’esistenza priva di gratificazione, i sentimenti di
opposizione che nascono da un malcelato scontento a cui non vede riparo , lo
fanno scontroso, poco simpatico, distante dalla gente comune, lo rendono muto
fra i parlanti senza costrutto, che rifiutano il dialogo ed il colloquio, al
punto ch’egli trova solo in sé stesso un’occasione di vivibilità, di
appartenenza alla vita, alle emozioni, ai sentimenti, che riesce a realizzare
negli atti di bontà, nella purezza della parola scritta, del verso, per
acquisire una dimensione superiore, un’aura diversa e conveniente che lo rende
accettabile a se stesso e lo sappia conciliare col mondo degli uomini, con la
società, in qualche modo. Leggiamo, a proposito della lirica intitolata
“Trentuno”, l’inquietudine che lo tormenta e non gli lascia alcuna speranza di
salvezza, dove dice: “Ho sempre la stessa fame di libertà, | gli occhi mi si
gonfiano ad ogni sussulto del cuore, | il corpo è greve e posticcio alla mia
anima, zavorra. | È solo questo corpo che mi impedisce di volare | è solo questa
mente che mi impedisce di sognare. | Piango | e vorrei ridere di questa vita e
di me stesso. | Forse sono diventato adulto | e non riesco più a sorridere.” (p.
23).
È chiaro che un cupo
sentimento dell’umano destino, un velame di pessimismo, un senso di solitudine
per il momento insuperabile, offuscano lo scrittore, lo portano a rivedere gli
eventi del passato, a riconoscere il valore delle cose perdute, a guardare al
presente con tanta malinconia. Eppure, si tratta di ritmi di passaggio, laddove
la realtà contrasta la nostra capacità progettuale e ci si sente afferrati da
quella sensazione di impotenza che tanto peso acquista negli anni giovani.
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Recensione |
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