| |
Altre opere di Filippo
Giordano precedono quest’ultima intitolata Il sale della terra. A partire
da Rami di scirocco (poesie, 2000), Voli di soffione (racconti,
2001), Perfetto 6: il file nascosto dei numeri primi (2001), Primi di
Mersenne e numeri perfetti (2002), fino all’Osservatorio delle terne
pitagoriche primitive (2002) ed a Scorcia ri limuni scamusciata
(poesie, 2003), esse evidenziano un diverso tipo d’impostazione e d’avventura
intellettuale.
La sua vena poetica alterna,
via via, alla tematica lirica, la prosa narrativa, l’evocazione della parlata
dialettale del luogo in cui vive, fino alla cura particolare della dialettica
pitagorica dell’esistenza. Il che, sicuramente, non è poco, data la versatilità
dell’attenzione rivolta ai vari fronti della cultura umanistica generale e
filosofica di ogni tempo, anche se in maniera personalissima, quasi
lampeggiante, a volte di ripiego.
In quest’ultimo testo, nel
quale ci presenta venticinque selezionate sue composizioni, egli apre ad un
discorso complesso, quanto ricco di intersezioni interessanti e costruttive. E
non ci inganni la semplicità verbale del discorso che poggia al limite di un
vaglio prosastico e scarno, accostandosi di tanto in tanto alla lingua parlata,
ad un italiano essenziale nella sua struttura metrica corrente, quasi
discorsiva, non meno che dimostrativa. In queste pagine, il paesaggio e la
natura, nel corso delle stagioni, fissano una vicenda inenarrabile per la sua
storicità e bellezza, tutta giocata, l’uno e l’altra, in lievi architetture
verbali che prendono vita da memorie ancestrali, tratteggi d’epoche e di
esperienze, testimonianze, squarci della memoria. E tutto quello che rientra
nell’Indice de Il sale della terra, titolo del libro in questione, non è
altro che un timbro di autenticità, collocato magari su un nome/parola
propulsore d’immagini e di sensazioni, su un limite o sfondo naturale che viene
a far corpo con una forte capacità di sintesi, a fronte d’una sensibilità
squisita. Così, dall’input di “Generazioni”, per cui troviamo che “a Mistretta
le creste dei monti | hanno mani di verde velluto...” (p. 3), e vi appare chiaro
come l’uomo non sia altro che “vento che s’invola”(p. 4), si trascorre
lentamente, a guado delle fiumare “una curva | gettata alle spalle del tempo...”
(p. 5), e “vaghe ombre inquietano dal buio | il precario equilibrio del cammino”
(p. 6).
Ne discende la diceria del
“fuoco”, quella della “parola” e della “scrittura”, del “canto” e della
“poesia”, fino al “Dio vivente” nella “parola di Gesù” (p. 15). E si passa,
dalle epigrafi lontane e perdute nel volgere degli anni e dei secoli, della
ricordanza dei vari Copernico, Colombo, Edison, alla considerazione della
musica, del volo, del cinema, giungendo alla indimenticabile Madre, nella foto
ricordo. Fino alla meta provvisoria di certo, ossia alla “Immensa neve”
dell’ultimo tratto, ove ricorrono, nel quadro arioso e composito, i nomi dei
monti, dei fiumi, dei colli riguardanti l’assunto della stessa tematica.
“D’arance amare il succoso inverno | lungo la nazionale di Acquedolci | e limoni
e cedri e mandarini | a condire la piana di Capo d’ Orlando, | orpelli terreni
di aereo sole...”. Si tratta della Sicilia, con animo di indiscutibile
appartenenza.
| |
 |
Recensione |
|