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Dopo i libri di poesia " Piccola colazione " (1987 )," Diario di Normandia " (1990) , "Camera oscura" 1992), " Nuvole " (1995), che hanno segnato con successo un validissimo percorso letterario, nel quadro della sua produzione complessiva, prosastica e saggistica, per cui si pone tra i maggiori del nostro tempo, Paolo Rufflli ci presenta quest'ultimo, intitolato La gioia e il lutto. E compendia, nei due sostantivi del titolo (gioia, lutto) , carichi di segnali e premonizioni, in cui il tono della realtà acquista riverberi sanguigni e spietati, tali che soltanto la pietà riesce ad indicarne i luoghi e i sensi, il tema dei dolore, che è particolare quando nasce dal male ed insuperabile nel momento estremo della morte per "Aids" quando tocca, come tocca, l'improvvida e avventurosa giovinezza. Due facce di una stessa medaglia, dunque, estremi di un discorso che tende a verificare nell'essere umano il dramma antico della sua debolezza, nel punto in cui la vitalità degenera nella cancrena " lurida", irrecuperabile, in uno spazio alieno dove ogni cosa sconfina e si perde.

Il sottotitolo " Passione e morte per Aids" non consente deviazioni. Il lettore è posto dinanzi ad un evento definitivo che non ammette rimandi. Non c'è riflessione che tenga. Gli astanti sono pregati di accedere al silenzio.

E tutto accade nel concentrato di un colloquio a più voci, nella muta follia di messaggi reciproci pensati, detti e captati dai presenti e dagli astanti, personaggi piegati dalla sofferenza padre, madre, amico, e colui che muore, al centro di tutto, vittima sacrificale, unico referente di tanta enorme impressione di notizie, forze interiori e psichiche, simili a referti, anche retrodatati, che di tanto in tanto si fanno urgenti, indilazionabili ed esposti al futuro, nella loro impossibile verifica, conclusione.

Un testo del genere rientra in una forma modernissima e attuale, stringata ed essenziale della tragedia, tuttavia non dichiarata né aperta, il cui teatro può essere simulato in una stanza, come in effetti accade, di un giovane disfatto, giunto al suo terminale, tra le lenzuola bianche di un letto.

L'autore si ricava le sue parti d'intervento nella tematica complessiva. Si lascia evidenziare con naturalezza nel distacco, razionalmente condotto, dal problema, tuttavia doloroso, nell'avvertimento puntuale che prepara ai piccoli nodi abissali della fine, in un filo conduttore che colloca le varie immissioni verbali sull'orizzonte di un inalterabile, indistricato realismo.

Il Coro, un tipo d'espressione che, qui, impegna il corsivo, percorre nei modi liberi e commossi della pietas l'evento, cominciando dall'inizio: "L'accendersi e | lo spegnersi | (per caso?) della vita, | la traccia luminosa | la scia che lascia | dietro a sé.." . E, via via, segna l'urgenza di un interrogativo che nega se stesso, vanificandosi.

La presa di coscienza, qua e là, da parte della Madre: "Me lo rivedo qui | appena nato, | come fosse adesso. | Ero incapace di amministrarlo..."; del Padre: "Per che ragione | non mi sia | sforzato prima | di capire? ... Non ti sei perso, | no, sono io | che ti ho perduto... ho appena fatto | in tempo a ribadirgli | che significato | hanno avuto per me | la vita che ha vissuto | e il troppo lesto volo..."; dell'Amico: "Io , amante amato, | vedendo a me | riconosciuto | - favore più crudele - | il fiele crudo | della sopravvivenza...".

Ma è lui, il Morente, l'attore principale che non lascia ad altri il centro della scena e si accampa nella sua infinita disgrazia: "Quando succede, | più niente ti assicura | neppure per il poco | e non c'è mezzo | per venirne fuori..." Non è per un consiglio | o una spiegazione | che ti inseguivo | ingordo nel tuo studio... Per un abbraccio, | venivo là a cercare | approvazione." .... "gridavo senza dirlo: | "Papà, ecco tuo figlio". Dall'immane tragedia che, in se stessa, basterebbe a colmare le fosse oscure dell'universo, emerge la voce dell'Autore. Laddove Paolo Ruffilli, appunto, è tenuto a comporre le membra sparse del significato umano del tutto. E ritrova nel male luttuoso, forse in una visione provvidenziale, generica, il seme del bene. E nella rovina di ogni cosa, il caos dell'origine e del cominciamento del nuovo che è sempre esplosivo e può, nell'inversione, apparentarsi alla gioia.

Recensione
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