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Lucia Gaddo, padovana di nascita e di residenza, ha pubblicato finora ben undici libri di poesia con diversi editori. La sua visione della poesia che, molte volte, fa centro nella concezione della vita, si evidenzia senza sforzo nella prima lirica, posta quasi in apertura di un discorso che, per avere esiti letterari, poggia certamente su un lungo processo interiore, su un’attenzione al proprio personale essere al mondo che giustifica le scelte prioritarie nel campo della sensibilità, del pensiero, del gesto che la guidano all’interpretazione di se stessa attraverso l’incontro con l’altro. E, in questo caso, col lettore. Infatti: “Come fosse ascolto | è questo parlare d’acqua fitto | denso di risposta | ripete | che la vita ama te | come dondolio di culla || un sorriso di luna | il lume specchia | della luce | anticipo e memoria | del giorno che verrà...” (Pioggia).

Gioia e dolore si alternano, attraverso l’andamento lirico di queste opere, nell’animo dell’autrice, confidenza e distacco, amore e abbandono, in un orizzonte di lontananze che, pure, non le impedisce di rivolgersi all’altro da sé, nella quotidianità del vissuto, nell’ampiezza di una fraternità sofferta ed ambita, nonostante la fluidità e, quindi, l’instabilità di ogni rapporto, su questa terra.

Si tratta di un discorso diretto che non divaga, non si scioglie in gocciole di parole piovigginose, misericordiose e, men che meno, mendicatrici di comprensione vittimistica, ma guarda semplicemente al divenire, spesso improprio ed apparentemente incongruo della vita, consapevole che la forza del dire risale all’accettazione della realtà, in un crescendo di possibili alternative.

Lucia Gaddo conosce bene le misteriore impronte della retorica che apre alla metafora e al simbolo, adatti al riferimento dello scavo interiore, sul piano ideologico e sensibile.

“Landa”, “Quarantena” sono, fra gli altri, i titoli del disincanto che forza la voluta calma del cuore. Nel primo, la poesia di confessione vive il suo momento magico: “Sapessi | come ogni vigile minuto | che scavalca | il tuo distratto fare | lacrima diventa | nel lago cupo e risentito | del rimpianto...” (p. 6), e gioca il lamento dell’incomprensione, dell’incomunicabilità di cui forse, troppo si è parlato, negli anni scorsi.

Nel secondo: “...sottrarsi, in muta sedizione | ricolta d’anima | all’assedio mortifero dei no... | al coraggio di restare | in radici di fortezza | nella costanza penetrante | e lustra della perseveranza.” (p. 7), il verso appare limpido, sereno; se ne avvantaggia la perfezione del dettato che assume, dall’interiorità della donna quel calore di vita che si determina nell’immediatezza e nell’universalità del sentire.

Recensione
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