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“Ma cosa fai la notte, di
soppiatto,” “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,”
Se ci si pone davanti a questa
raccolta ligi ad un codice più adatto alla ricezione del senso delle immagini
che all’individuazione del comunicato della scrittura non possono che rapirci il
ritmo la musicalità i richiami le assonanze. Se si riesce a superare la misura
dettata dal verso o addirittura il limite da esso imposto, ci si trova cullati
da un mare non certo calmo ma neanche battuto da una tempesta. L’autore ce ne dà
un esempio in “Assetto / assassinio”, a p. 42.
Ci si trova di fronte a versi
alessandrini che una cesura non sintattica ma dettata dal ritmo trasforma in
doppi settenari: “Vive, questa pianura urgente e lontanissima,” (p. 12), “Ti
vivi la tua vita proprio come una gita” (p. 26), sottolineata dalla rima, e lo
stesso autore ci fornisce un viatico in “Eidolon”, a p. 130. Quando il corsivo
di “Leonardo” (p. 30) ci introduce al senso della distanza subito lo scritto gli
fa il verso (il verso ne fa lo scritto?) facendo degli accenti come l’eco di sé
che s’allontana. Oppure quando il verso si distende oltre il metro canonico e
sconfina nella misura che fu di Pavese, solo superando la falsa cesura del
trattino: ”onirica sul bordo dell’abisso – ventre profondo”, oppure ubbidendo al
ritmo nell’evitare la sineresi: “Ah, quelle linee d’aria nell’oltranza,
siderali” (p. 24). Praticando questa lettura libera si nota una grande
propensione per settenari e novenari, con l’inserzione di alcuni endecasillabi
molto misurati anche se spesso funzionali a scomposizioni diverse e più
azzardate, rese possibili di volta in volta dal loro essere a maiore o a minore.
Certo, tutto questo può apparire come un atto d’arbitrio, non lo è forse anche
la poesia?. Basterà una lettura attenta ed indagatoria per poter godere di
questo piacere, anche se per goderne appieno penso occorra affidarsi ai consigli
di G. Contini. Il libro è lungo e troverete esempi.
Certo, questo va detto per la
versificazione non canonica, per la quale varrebbero altre considerazioni, così
come per la interessante gestione delle rime meno canoniche, ma non mi
arrischio. Delle composizioni in endecasillabi, dei sonetti, degli acrostici,
tutto di un’ esattezza che non va a discapito di una scioltezza senza forzature
sintattiche o espressive, e di quant’altro è più sedimentato non serve dire,
così come non servirebbe dire dell’esperienza del poeta.
Se invece si pone più
attenzione al significato dei versi nel loro insieme, e in qualche modo anche al
comunicato, ecco che tutto mi appare assai verboso, come una didascalia
scolastica riservata a neofiti dell’arte, e per questo quasi offensiva delle
opere stesse, il cui dettato non può essere maggiormente esplicato dall’aggiunta
di parole. Il riferimento simultaneo all’opera sia all’artista mi pare fuori
luogo, come se l’affetto personale potesse dipendere dalla condivisione
dell’opera o viceversa. Forse la mia è solo una forma di miopia ma tale dubbio
non è sufficiente a trattenermi, né ad impedire di chiudere con una citazione
provocatoria nella forma e nel contenuto. Non me ne voglia troppo Mario Lunetta
per la mia sincerità.
“Sogliono el più delle volte |
coloro che desiderano acquisire | grazia appresso uno Principe | farseli
incontro con quelle cose | che infra le loro abbino più care, | e alle quali
vegghino lui dilettarsi; …”.
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Recensione |
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