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Lo sguardo è teso, diagonale, a metà fra quello del fuciliere sul mirino e quello del muratore sul filo, tolleranza zero. L’osservazione è minuziosa, precisa e freddamente riportata sempre; dove la necessità è evidente come dove lo è di meno ed anche dove sfugge. Tuttavia il lettore non si sente mai circoscritto né assillato da un ambiente o da un paesaggio.

I personaggi che hanno un’immagine definita sono quelli che ruotano intorno ad un mondo di nobiltà decadente che sta transitando verso l’alta borghesia pervenuta, una società che si vergogna dei privilegi che le spettano di diritto ma non riesce a rinunciarvi; gli altri sono poco più di presenze, umanità indistinta che deve saper vivere, dove vivere significa saper stare al proprio posto, alla quale si possono attribuire tutti i sentimenti cristiani tranne che la dignità: quella resta appannaggio degli altri.

In questa saga delle meschinità passano come comete, splendenti e compiaciute di sé, le figure dell’automobile come simbolo autolesivo ma irrinunciabile, e quella di Roma, crogiolo decantato di tutto il grasso che cola nelle pieghe di una società raggrinzita; e il protagonista non sfugge a nessuna di quelle tare, troppo spesso agghindate da valori da chi si vergogna di mostrarsi bigotto quale è. Non ha certo ricevuto una educazione rigidamente cattolica nelle cucine e nei corridoi della villa, non è praticante quindi, forse neppure religioso, tuttavia pare aver assunto per contatto e permeazione tutte le caratteristiche della borghesia più beghina; ma neppure un briciolo della dignità nobiliare. Sottile quanto crudele l’esempio del gelato infettato dalla morte imminente, meschina quanto tragicomica parodia della paura dell’Aids, come se i castighi divini avvenissero per contagio, appena velata da una razionalità che appare fin troppo debole. Il protagonista pare invece affetto da una sudditanza che non ha bisogno di essere imposta, come se facesse già parte del patrimonio genetico; infatti in tutta la storia, neppure negli ultimi istanti di vita del padre naturale, entra mai in gioco il desiderio di una posizione vicina ma irraggiungibile, l’avidità per la parte di ricchezza che gli spetterebbe e che non gli viene neppure offerta; neppure quest’alibi si può concedere alla sua devozione, solo in qualche caso la paura di perdere la tranquillità della sua posizione, garantitagli da ciò che a sua madre fu imputato come una colpa, il suo posto di servo (torna in mente il giudizio spietato di Lorenzo Viani nei confronti del padre, in “Il figlio del pastore”).

Procedendo, la storia perde gradatamente forza fino a ridursi ad una vicenda comune nel momento in cui sfocia nel delta lagunoso del nostro tempo. Il protagonista si sotterra da sé come un insetto: il sogno che ha negato alla donna amata lo offre alla sua padrona, è l’apoteosi del servilismo, della disponibilità a tutte le mansioni in qualsivoglia orario al di fuori ed al di là di ogni possibile contratto di lavoro. La rappresentazione moderna dello “schiavo negro” di fronte al quale la padroncina non si vergogna di spogliarsi come si trattasse del proprio cavallo preferito; la metafora del cane da lecca che viene concesso alla giovane e pruriginosa signora che ha scelto la gabbia per non rinunciare alle sbarre d’oro. Dai ritratti di questi personaggi, più bestiario che galleria degli orrori, davanti a me si staglia un solo profilo dai contorni che riconosco come umani: “... un vestito scuro, ruvido, abbottonato fino al collo, intriso di odore aspro di faina. ... Il suo corpo trasuda odori penetranti, aggressivi, prepotenti, più forti di qualsiasi aroma, balsamo o profumo. Più forti di qualsiasi cosa. Più forti di lei, soprattutto.”.

Ovvio che anche questo è un parere assolutamente personale; d’altronde si sa, i miei innamoramenti hanno sempre avuto qualcosa di animalesco, oppure di tragico.

 
Recensione
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