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È ormai assodato come su certe
opere, che per la loro conformazione si rendono scarsamente accessibili “a
gratis”, vale a dire a chi non è disposto ad impegnarvi un soldino d’attenzione,
il critico ferrato, quanto efferato, può scrivere qualsiasi cosa purché mantenga
un livello di accessibilità superiore a quello dell’opera recensita ed a quello
dei probabili lettori. Questo mi pare giusto in quanto l’esito dell’operazione
può pervenire dalla firma del critico oppure, nei casi in cui il critico non sia
paludato, dalla complicità del lettore, o dalla sua non complicità, col critico
in questione. E anche questo mi pare giusto nella democrazia del chi c’è, e
nella conseguente esclusione di chi non c’è, perché non è disposto ad impegnare
quel soldino. Per questo scelgo di rischiare (i ragazzi che hanno gabbato tutti
falsificando le teste di Modigliani ne hanno svenduto l’eterna soddisfazione in
cambio di un attimo di notorietà come falsari. I rischi della possibilità di
scelta) e scrivo.
In questo lapidario libretto
della collana “Viceverso” (in vece del verso?) il senso della comunicazione non
sta nel comunicato immediatamente percepibile (come del resto mai nella poesia),
il quale è a volte scontato fino al luogo comune, ma nella forma rappresentata,
nel vituperio della sua esposizione. Come nelle tavole di Luciano Caruso, dove
il comunicato, che pure esiste frammentato dalle forme che lo mascherano e dalle
grafie minuscole che lo rendono pressoché illeggibile, viene indotto dalle rare
parole che si riescono a decifrare nelle forme scomposte ed irregolari, ed
insieme ad esse suggerito; così nelle poesie di Giorgio Moio il vituperio del
codice letterario e della lingua, pur non negando la comprensibilità del
comunicato, lo riscatta dalla sua condizione di banalità attraverso il sarcasmo
quasi autolesivo della forma, la quale, vituperatrice sopra ogni altra cosa più
ancora del senso del messaggio, rende inaccettabile nella sua riproposizione
provocatoria ciò che parrebbe ammissibile in quanto scontato (dire che nel mondo
si muore di fame è scontato, dirlo in rima diventerebbe banale, detto da un
ignorante appare accettabile); così nell’apparente basso livello del vituperio
trova agevolmente posto il codice che riscatta il messaggio.
In questo vituperio è vistosa
la mancanza di quelle modalità cui siamo ormai abituati: l’indicativo imperfetto
in forma di congiuntivo nello stile del politico basso partenopeo, il
congiuntivo imperfetto in luogo dell’imperativo da uomo pubblico pontino, il
condizionale passato al posto del congiuntivo trapassato alla industriale alto
milanese, ed altri stilemi in uso fra i giornalisti della carta stampata.
Tuttavia non se ne sente eccessivamente la mancanza, l’assunto ironico risulta
sufficiente a pervenire allo scopo di far giungere il senso al lettore che ha
investito il suo interesse nella lettura.
Ogni altro dubbio può essere
fugato rileggendo l’ultima poesia.
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Recensione |
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