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Se mai c’è acquiescenza è
verso un certo tono aulico ma non verso i cascami dell’accademismo
parauniversitario. Con l’ausilio delle date è possibile un tipo di confronto,
nella prima poesia (1963) si nota l’assenza delle parole che in quegli anni
furono dei poeti neri delle battaglie per i diritti civili ma c’è la fretta di
palpare con mano il perdurare del sogno di bellezza. Nell’elogio ai sedic’anni
(1964), non quelli del poeta che allora ne aveva ventuno, non c’è l’irruenza di
J. Prevert ma la sensazione quasi pacata di chi si sente ormai lontano da
quell’età fiorita. Come non riconoscere in questi atteggiamenti i segni delle
tappe percorse in erba da tutti coloro che si sono mossi sulla strada della
scrittura in versi; quanti ne rincontriamo ora, e in quanti, incontrandoli,
possiamo riconoscere, come qui, il segno del passaggio del tempo, che sui versi
ha un effetto contrario che intorno agli occhi, e invece che increspati ed
avvizziti li rende freschi e distesi. Già in Illusioni (p. 10)
riscontriamo il cambiamento: la capacità di trattare il verso è evidente così
come la disconnessione dal linguaggio accademico (parliamo di un insegnante
dagli studi classici), “le miseriette ottuse – i balbettii penosi” ma
soprattutto i “capetti ignoranti” dimostrano il volontario esilio
intellettuale da certi ambienti. Così come i “parolai cialtroni”, che sull’onda
della “penosa costanza” trovano la rima con “speranza”, e così mentre la
costanza è ridimensionata dai cialtroni, alla speranza viene tolta enfasi dal
“finire i miei giorni”. Non serve scomodare Cirano o Don Chisciotte, ci possiamo
accontentare della ribalderia popolare di Bertoldo e della dimessa
irreprensibilità di Umberto D.
Per questa raccolta non è
forse il caso di parlare di sperimentalismi ma senza dubbio sono di un certo
interesse le soluzioni che tendono a sviluppare il verso in senso verticale
interrompendo la sequenza con uno che si stende in senso orizzontale. Non si
tratta semplicemente di scomporre un verso per ottenerne tanti più brevi
(stratagemma usato dai poeti che si considerano troppo brevi o si sentono
insufficienti), qui non si riesce a mettere insieme le cose in modo diverso da
quello ordinato dall’autore, mentre i versi lunghi, quasi sempre endecasillabi,
hanno una regolarità quasi maniacale e una musicalità molto classica (p. 68).
L’autore chiude con una
piccola prova di mestiere: due piccole strofe uguali senza alcuna pausa
sintattica e poi conclude facendo zoppicare l’ultima con l’inserzione di quel “amica”
che causa una cesura forte, spezza la regolarità della strofe e la mette in
contrapposizione con l’atmosfera quasi affettata delle due precedenti, e
fingendo di riportare alla realtà in effetti enfatizza la sensazione onirica
espressa dalle prime due. Gaetano Forno aveva già provato questa soluzione,
anche se in modo meno raffinato, in Peae (p. 12), dove dopo tre attacchi
di strofe uguali ed accattivanti, apriva la quarta con un verso fuori misura e
con tutti gli accenti spostati, ma lì si trattava di dialetto (?) ed avevo
pensato che meritasse un discorso a sé.
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Recensione |
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