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Hanno strappato alla polvere del tempo immagini drammafarsesche dell’infanzia trascorsa in questo paese dove sono nato per caso, senza merito né colpa, questi racconti; hanno risvegliato echi da 4 novembre: “… quelle schiere ch’avevano troneggiato orgogliose dall’alto dei loro predellini risalgono disordinatamente i gradini della pubblica gogna per le loro quotidiane miserie private”. E per giunta, apprendiamo dalle note che l’autore si è laureato in filosofia con “Spirito” per cui, l’ipotetica linea, non necessariamente retta che unisce: il rifiuto del possesso a favore continua ricerca, al cantico del gallo silvestre, mi crea non poco sconcerto.

Ai fatti, è una precisa scelta dell’autore quella di non fare di questi racconti uno spassoso divertimento comico, una scelta attuata attraverso un tipo di scrittura nella quale tutto piega verso un surreale di difficile immedesimazione; il comico non diventa mai ridanciano, e quando si fa drammatico non è mai tragico, per cui l’ilarità è controbilanciata dalla considerazione.

Do per scontata la veridicità di quanto si racconta poiché posso testimoniare che la descrizione del sommo poeta è di una precisione esasperante (l’autore stesso è poeta), mi riferisco alla parte pubblica, per fortuna non sono mai stato parte dell’intimità domestica di alcun “grande poeta”, neppure uno, pur avendone conosciuti. Posso confermare che la misura della grandezza pare che venga loro da donne, come dice l’autore, che non si sa da che pianeta siano piovute, più che dal lavoro dei critici, anche i più pagati.

L’unica cosa che veramente mi opprime in tutta l’omologazione nella quale annegano i protagonisti delle vicende, non tutte, è che anche il sogno infanticida di tutti i sogni, il sogno così vero da sognare sé stesso, possa avvenire soltanto nello spazio omologato di un finesettimana che non intralci gli impegni di lavoro; che intralci pure gli affetti gli impegni famigliari le promesse agli amici ma non il lavoro, un lavoro che per i protagonisti troppo spesso vuol dire solo soldi (pochi maledetti e subito?). E le espressioni brillanti ed efficaci che spesso s’incontrano non riescono a sollevarli nell’aura letteraria, e neppure muovono il lettore a quella sorta di compassione come avviene invece, per esempio, per la figlia del produttore di cosmetici di Balzac. Per contrapposizione, questo mi fa venire in mente l’uomo di lettere definito da Voltaire: un pesce volante che se s’alza in volo lo ghermiscono gli uccelli e se s’immerge troppo lo divorano i pesci, pure con abbastanza onestà da condannarsi da solo alle belve. La stessa onestà che Balzac, sopraffatto dai debiti, mette nei personaggi più miseri della sua Commedia, un’onestà frugale e quasi inconsapevole, che li rende ancor più fragili in mezzo ai pescecani dai grandi obiettivi, eppure non riesce ad impedire di mostrarceli piccoli piccoli, minimalisti, diremmo oggi. Ma qui a scrivere è un filosofo e parla di parte della classe dirigente del vostro paese, un paesetto che è ancora Europa.

Qualche volta, troppo spesso per passare inosservata, mi è parso di intravedere, di sentire, una prosa in versi, una prosa lirica; ma l’autore non è l’unico a sognare in rima. Eppure qualcosa di poetico mi è parso fra i sax e i pianoforti, fra tutte quelle note e quei passi di danza, non la solita storia d’amore e morte, qualcosa come una scherma di un bandoneon che termina con l’enjambement di un casché. Quindi, che non crediate, la Pianura Padana di questo libro non è fatta solo di biechi professori ma anche di cattive maestre, per fortuna, e qualche Signora Lalla; peccato che siano tutte nascoste in quella striscia di nulla che sta tra fine della terra e l’inizio del cielo, a nascondere perennemente l’orizzonte, insieme alle canne dell’Adda alle baracche del Ticino ai capolinea del Jazz e forse anche all’etica geometrica degli ottici olandesi. In quella sottile striscia dove anche chi non ha colpa né merito per essere nato qui può continuare a vivere.

Recensione
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