Vi sono libri – pochi, per la verità – che lasciano il segno rivelando
ciò che l’intelligenza cerca di ignorare: è impegnativo quindi affrontare
un’opera “d’alta macelleria terapeutica ospedaliera ma eseguita coi
raffinati strumenti della teologia”, per usare le parole dell’autore; perché,
iniziando il percorso dei LXII testi (o canti), ci si dovrà introdurre da
“tristi oceani senza luce e senza nome” (II): l’essere umano riceve così
il dolore in funzione di catarsi e la divinità sotto forma di obliqua,
inaccessibile luce.
Biologia e metafisica qui convivono, però la sofferenza non è astrazione:
nel testo XIV tutto appare ridotto a elemento corporale; nel XXIII non è
concesso neppure l’oblio a una carnalità sempre più corrotta e destinata a
un’innominabile conclusione; nel XXXVI il Maligno viene estirpato con esiti
allucinanti, apparentemente liberatorî; nel XLIII si suppone la critica feroce
ai “poeti necrofili” – penso – per il loro non rapportarsi con la
terribile fisicità del mondo.
Quanto contiene di ironia o di pietà questo straordinario ‘poema epico’?
Con una scrittura che ha la forza ipnotica da racconto dell’incubo – ben più
stringata e incalzante, disinibita e talora scientemente oggettiva – ogni
illusione risulta sezionata dal taglio chirurgico di crudeli verità cui è
impossibile opporsi; il linguaggio prelude a un inferno solo intravisto, dove la
morte è utopia. Cade allora l’estetismo di certa produzione poetica:
Scarselli infatti misura la sua capacità creativa in termini concreti,
infrangendo l’esile rifugio dell’io.
Un libro unico, che conferma – se mai ce ne fosse bisogno – l’unicità
del suo autore.
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