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Domenico Cipriano è un trentenne che si era già segnalato alla critica attenta per alcune poesie pubblicate su riviste, per aver vinto il Lerici Pea nel 1999 ed essere risultato finalista, sempre nello stesso anno, al Città di Penne. Plinio Perilli, autore dell’Introduzione, lo aveva già citato nell’Antologia della Poesia del Novecento “Melodie della Terra” pubblicata da Crocetti nel 1998. “Il continente perso” è il suo libro d’esordio, libro, come dice lo stesso Perilli nell’introduzione “…di formazione, in visibile continua crescita, ora ben metabolizzata tra verve sbarazzina e alienazione metafisica, controllo mass-mediologico e desiderio immenso d’abbandonarsi a una poesia che nasca proprio trasgredendo sé stessa”.

Il libro si divide in otto parti e ad ogni parte viene premessa una “guida all’ascolto” inestimabile portolano per capire il territorio della sua caccia o dei suoi vagabondaggi, i suoi viaggi come i suoi approdi, i suoi amori o le sue delusioni, quel continente perso che in ogni caso rimane presente, e ineludibile. La musica che fa da sottofondo alla sua poesia (si tratti di M. Petrucciani, F. Raulin, E.Weber, O. Coleman, tanto per citare) è l’indicativo presente della realtà che il poeta si trova a sopportare o affrontare, che quella realtà cerca in qualche modo di dominare, esorcizzare, a volte eludere, senza tuttavia riuscire ad amalgamarsi in essa. L’osservazione si fa riflessione e la riflessione invece di chiudersi in sé stessa deborda oltre il limite della parola, diventa “estroso idioma dell’anima impellente”.

Fra i giovani della “generazione ’70”, quelli chiamati all’opera comune, per usare il titolo di un’antologia di forte rilevanza critica pubblicata da Giuliano Ladolfi per “Atelier”, Cipriano, pur non facendo parte di quel drappello formato quasi esclusivamente da poeti centro-settentrionali, ha indubbiamente titolo per appartenere alla generazione decisiva che per prima raggiunge l’obbiettivo di un superamento del Novecento, “inteso come modo di fare poesia... […] I poeti nati negli anni Settanta costituiscono la prima generazione che sta rileggendo il Novecento dall’esterno” (G.Ladolfi).

Del resto non ne è ben consapevole Cipriano quando asserisce “siamo la generazione del cambiamento”? Egli avverte quest’ansia partendo proprio da una rilettura della realtà, dalla capacità di rimettere in gioco non tanto il suo rapporto di uomo inserito in un particolare contesto socio-culturale, e nemmeno il suo rapporto con la parola, quanto invece la percezione stessa del reale, che diventa, nel momento in cui deve essere sopportata o affrontata, veicolo di poesia e consapevolezza della sua necessità. Anche se è una necessità per pochi:“Siamo pochi | rimasti a guardare | questo mare”.

“Il continente perso” o ritrovato o reinventato, è il territorio sul quale Cipriano indaga la forza del dolore e dell’amore, ma da una visuale diversa, defilata, a volte ironica a volte tragica, ma comunque sempre originale, la visuale del giovane che si sente senza rete, che avverte la fatica del viaggio e i pericoli di cui è costellato, senza per questo scoraggiarsi, anzi trovando la forza di cantare lungo il cammino, anche se il canto a volte nasconde la paura del buio e il timore della caduta.

 
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