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In nome di un possibile futuro. L’ultimo libro di Giuseppina Luongo Bartolini. Un album è di solito un utile (anche se spesso immobile e depresso) serbatoio di ricordi. Possono essere fotografie ingiallite, frasi scritte in fretta prima di lasciare una casa amica, fiori appassiti che si sfaldano nel momento in cui si toccano con la mano nostalgica di chi guarda al passato. Gli album di solito servono a tramandare la memoria del passato, a trasformarla in sogno e ricordo, in mano stretta di nostalgia, in repertorio di contrattempi e di speranze andate a male e poi dimenticate con la stessa facilità con cui si lascia un ombrello in un vagone ferroviario, in volontà di non dimenticare. L’Album. Poesie dell’amore (edito, con una nota di Armando Saveriano), ultima opera edita finora di Giuseppina Luongo Bartolini non presenta questo aspetto. Il libro di poesie in memoria dell’amato compagno di tutta una vita con il quale si sperava di continuare ad invecchiare senza problemi o dolore «Progettavo due piccole poltrone | di fronte al video Tv per gli anni | della vecchiezza ma era già qui | l’invisibile la soglia | della porta l’inquadrava paziente | coi fiori secchi della sua corona | nel bronzo fuso scortata da | un nugolo d’angeli caduti | Tu solo l’hai riconosciuta sorella | della morte fissandomi muto | interrogavi la mia spensierata | perenne giovinezza temendo di | turbarmi e nell’ultimo sguardo | mi lucevi come se appena nata | ci fossi tra le mie fasce bianche» (p. 106).

È in realtà un inno al futuro, un futuro fronteggiato senza paura e con la forza d’animo di chi non teme il tempo e la sua angosciosa e frettolosa avanzata.

La poesia di Giuseppina Luongo Bartolini non è poesia autobiografica; in essa non vi è traccia di quella voluptas dolendi tipica della peggiore poesia lirica scritta da donne e pur così profondamente radicata nella tradizione italiana di radice petrarchistica (e non certo presente in Petrarca) così come non c’è mai compiacimento per l’aneddoto o il ricordo riportato come fine a se stesso. Ogni epifania dell’amato Pellegrino, invece, fuoriesce dalla logica del puro rammemorare per farsi descrizione e riflessione sui massimi misteri della vita e della morte prima e per definirsi come accettazione della natura mortale degli uomini poi. Un’accettazione che però non è affatto passiva e pura e semplice messa agli atti (come si potrebbe pensare in tali casi) ma capacità di leggere anche nella fine necessaria e rimpianta l’inizio di qualcos’altro, un’attesa del futuro, un guanto di sfida al presente. Pur scomparso all’interno del suo orizzonte temporale reale, l’amato compagno di tutta una vita è pur sempre lì a guardarla con gli occhi dell’amore che trascolorano in quelli della poesia: «Non mi vedrai invecchiare | e cercherai la donna dal volto | giovane che io non sarò | incontrandomi nell’abisso del | tempo e nelle vaghe forme io | che venendoti incontro | potrò chiamarti amore nel vano | abbraccio del riconoscimento | e dell’antico doloroso addio» (p. 61).

La poesia in questo caso non è solo prospettiva di ricordo, infatti, o lamento per ciò che non è più e non più potrà ritornare quanto anticipazione di ciò che possibilmente verrà e capacità di creare archi spazio-temporali assoluti che si protendono nella direzione di un rapporto integrale con colui che solo apparentemente è scomparso. L’album della poesia non è fatto di echi che vengono dal passato ma è frutto della risonanza del reincontro in un tempo futuro in cui la scrittura farà da tramite nell’intesa di rinnovare un rapporto che non si è mai spezzato. La poesia di Giuseppina Luongo Bartolini si conferma in questo modo scrittura dell’Altro e non (soltanto) del Sé perché investe con il flusso lirico della sua capacità poematica il desiderio che la sostiene di continuare a vivere (e a scrivere) nonostante tutto. Per questo motivo, proprio l’oscillazione” (come bene argomenta Armando Saveriano nella sua Nota di commento) e la frantumazione delle frasi e dei flussi poetici si articola come un tutto continuo (nonostante l’apparente disorganicità dei ricordi e delle epifanie). In esso non c’è tanto autobiografia e rammemorazione quanto descrittività e presentificazione.

Come ha scritto Philippe Lacoue-Labarthe criticando la teoria psicoanalitica della scrittura autobiografica di Theodor Reik e contrapponendola a quella ben più cogente prospettata da Freud e poi da Jacques Lacan: «Questa è la ragione per cui non soltanto abortisce la sua teoria dell’autobiografia, ma anche la stessa autobiografia non può essere scritta. Se non specularmente, per interposta persona (o figura), secondo quel movimento che forse è ovunque all’opera, sotto una o sotto un’altra forma, e che fa di ogni autobiografia essenzialmente una allobiografia, il “romanzo” di un altro (foss’anche un doppio). Il romanzo di un altro morto, o di altri morti. Come gli Essais di Montaigne sono un sepolcro di La Boètie e si ordinano secondo le grandi figure di morenti esemplari dell’ Antichità (a cominciare dal Socrate del Fedone). […]. Ogni autobiografia è per essenza il racconto di una agonia, letteralmente» (Philippe Lacoue-Labarthe, La melodia ossessiva. Psicanalisi e musica, trad. it. di Giampiero Comolli, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 59).

L’autobiografia “autentica” nella scrittura poetica è dunque rivelazione e messa in scena del desiderio dell’Altro come apparizione e rievocazione di un mondo diverso in cui il tempo non è il nemico da sconfiggere ma l’alleato da condurre alla vittoria sulla morte. La poesia si rastrema allora in estrema lotta metaforica contro l’oblio per riuscire ad evitare che esso travolga tutto con il suo passo da gigante: «Fermalo questo treno su rotaie convulse | che si avventa alle spalle scivola sfrenato | alla tua rotta m’aggredisce sconvolta nel | ritmo sferragliante delle ruote» (p. 172).

Seguire la “rotta” del ricordo è l’esercizio della pratica poetica come inizio di un rapporto con un futuro che non si vede più quale buio o minaccioso ma connesso salvificamente al presente del lutto. La missione della poesia è, dunque, quella di impedire all’oblio di prevalere con il suo dominio assoluto e, quindi, di riuscire a battere sul tempo il verso e il ritmo della scrittura: essi, invece, vogliono riuscire a salvare il ricordo del passato e impedire che venga imbalsamato nel monumento funebre della dimenticanza. La poesia vuole ricordare per esistere, non vivere per ridursi a ricordare. “Morte non avrà più dominio” – come ricorda Dylan Thomas in una delle sue poesie più belle perché «Da questo punto in poi ti toccherà | con me vivere la stessa mia vita | l’identificazione momento per momento | pena per pena del pensiero e del normale | travestimento. | Dovrai adattare la tua forza al mio povero | meditare muovere definire e solo | pensandoti potrò obbedirti e accompagnarti | e tu accompagnami seguimi ti prego nella | vacanza e nell’appartenenza e ancora ti appartengo | e mi appartieni marito e figlio… (p. 153) ».

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