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Un diffuso lirismo, ora tenero e flebile ora esasperato e furioso, segna
questo Fiore di loto, assurgendo a qualità dominante. Tale lirismo, talvolta un
po’ corrivo, è la diretta conseguenza della scelta di una tematica amorosa
ancora palpitante e coinvolgente al punto di annullare la distanza tra io
poetico e io empirico. “Il mondo e la vita non sono fatti per procurare
un’esistenza felice” diceva Schopenhauer, ma gli innamorati di tutti i tempi
hanno sempre dimenticato – ammesso che la conoscessero – questa saggia
massima per abbandonarsi al sogno di felicità che l’amore-passione lascia
intravedere.
Due epigrafi aprono questo libro con l’evidente funzione di
creare una costellazione di riferimento, di proporre due vette ineguagliate di
lirica amorosa creata da donna. Saffo e Acmatova (“Perché nell’amore il
silenzio | duole, insopportabile all’anima”). E Corsalini: “Non mi piace
il Silenzio | … | Amo il rumore del Vento”. È vero: chi ama sente il
bisogno di gridare (la gioia o la disperazione), ma il poeta dovrebbe sapere che
le sue parole o affondano le proprie radici nel silenzio o non valgono niente.
D’altronde A. de Vigny: “Solo il silenzio è grande; tutto il resto è
debolezza”.
Bisogna dare atto all’autrice di aver scelto un titolo molto
bello, dal simbolismo complesso. Dato che questo fiore si distende sulla
superficie delle acque stagnanti, ecco che in prima istanza diventa un simbolo
di purezza perché non si lascia macchiare da esse.
Successivamente il fiore di
loto si associa la connotazione dell’oblio (in Odissea, IX incontriamo i
Lotofagi. Essi si nutrivano di fiori di loto che avevano la proprietà di far
dimenticare la propria terra a chi ne mangiasse): quell’oblio veicolato dalla
passione amorosa che fa dimenticare doveri morali e sociali.
Un’attenta
analisi registra la strenua ricerca di analogie-metafore irrituali, non
addomesticate dall’uso, che restituiscano la varietà e la qualità degli
stati d’animo del soggetto. Il risultato talora è felice, talora incongruo,
specie quando tali figure si affollano sovrapponendosi (ad es. Visioni di lune
piene), mentre un lavoro di diluizione e di fusione avrebbe assicurato esiti più
positivi. Che peraltro non mancano. Si legga, ad esempio, Funeste funi (i
corsivi sono miei): “In grovigli di viventi rovi), mi aggiro accigliata. | Si
attorcigliano funeste funi | sulla mia visiera color fumo. | Grigie sagome |
depongono furenti spinose corone | sulla mia testa | di regina delle
delusioni”. Qui troviamo una cupa visione, degna del peggiore degli incubi. La
cupezza risulta rafforzata da un tessuto fonico ricco di allitterazioni e
paronomasie. Quella testa di “regina delle delusioni” incoronata di spine è
immagine di forte spessore, difficilmente dimenticabile.
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Recensione |
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