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Veniero Scarselli e il moderno ricupero dell'epica
Questo ponderoso volume è un
utile strumento per una riconsiderazione globale dell’intera opera dell’autore
toscano, a partire da Isole e vele del 1988 e a finire con Diletta
Sposa del 2003. Gli undici poemi raccolti, che videro la luce singolarmente,
sono stati rivisti per la pubblicazione in questo volume, e quello che allora
potè sfuggire può essere agevolmente recuperato e approfondito grazie appunto
alla lettura sincronica del lavoro scarselliano (ma si poteva approfittare di
questa occasione per provvedere alla numerazione dei versi). Risalta
innanzitutto la coerenza di questo lavoro: una volta scelta come congeniale la
forma poematica, Scarselli non l’ha più abbandonata, andando altresì fiero di
questo percorso decisamente controcorrente.
Qui si pone la prima questione
fondamentale, la giustezza o almeno il senso di tale scelta. Il poema, nella
versione epico-cavalleresca, è tramontato da ormai quattro secoli (è del 1605 la
prima parte del Don Chisciotte di Cervantes) sostituito dal romanzo,
“moderna epopea borghese” secondo la nota definizione hegeliana. L’epica, che
necessità di precisi ingredienti come armi ed eroi, ha conosciuto una nuova vita
col romanzo ottocentesco (come non pensare a Guerra e pace?). Poi, tra
Otto e Novecento, anche questa forma romanzesca ha dovuto mutare pelle, poiché
nessuno era più in grado di abbracciare la totalità del reale grazie ad un
sistema ideologico o assiologico (si pensi ad un Manzoni o aun Goethe). Ai fatti
esterni si sostituiscono quelli interni, incentrati sulla scissione e la crisi
dell’io. Questa, in estrema sintesi, la storia. Ora chi vuole rilanciare il
genere poematico, cioè la narrazione in versi, lasciati da parte armi ed eroi,
deve inventarsi una materia, deciderne la strutturazione, creare un linguaggio e
un ritmo, nonché chiedersi se possiede un pensiero “forte” che sostenga e
alimenti il tutto. Questo appunto Scarselli ha fatto in maniera più che
dignitosa (ad es. il linguaggio adottato, pur contiguo alla prosa, ha
limpidezza, fluidità e increspatura ritmica) ma, ciò nonostante, è impossibile
trovargli una collocazione nel panorama della poesia italiana di fine secolo XX.
La distanza dalle tendenze più diffuse (postermetismo, neoavanguardia e
dintorni, minimalismo prosastico) è netta, anche perché queste tendenze
insistono sul versante lirico. Sono altresì fortemente convinto che la
singolarità del suo percorso è inspiegabile se non si prende in considerazione
la sua formazione scientifica: una formazione che generalmente parlando permette
di fare esperienza dell’intrinseca bellezza del mondo.
Il vecchio poema cavalleresco
aveva bisogno (lo si diceva prima) di armi ed eroi, oltre ad una più o meno
solida concezione dell’uomo e della vita. L’epica scarselliana ha al suo centro
la dialettica corpo-spirito, perciò parlerei di epica della corporalità e della
spiritualità. Ma il poeta toscano è affascinato (ma forse la parola esatta è
“ossessionato”) soprattutto dalla metamorfosi del corpo attraverso il tempo,
dalle sue secrezioni, dalle funzioni fisiologiche che esso svolge; fortissima
l’attenzione ai meccanismi del piacere e del dolore. La decrepitezza, i dolori e
le malattie del corpo umano e animale fanno della Terra non un variopinto eden
ma un grande, lamentoso e sconvolgente lazzaretto (cfr. titolo). E qui entrano
in ballo i severi studi di biologia del Nostro che lo sorreggono evitandogli
cadute nel generico e nel vago. E lo assilla pure la questione di come alle
strutture corporee materiali si leghino le funzioni spirituali o mentali
(l’anima). Dell’epica della tradizione Scarselli conserva l’atteggiamento
ambizioso di chi è alla ricerca di una poesia totale, quella che dà una risposta
alle domande di fondo. Poesia totale significa anche non dimenticare niente
dando voce a tutto: l’osceno e il sublime, il corporale e lo spirituale,
l’orrido e l’idillico, ecc. Per l’"eretico" Scarselli il Bene (la vita) e il
Male (il dolore, la morte) sono i signori del mondo, sicché il suo recupero del
manicheismo non potrebbe essere più netto (è lui stesso ad ammetterlo
esplicitamente, pp. 413-14). Ma accanto al manicheismo bisogna collocare pure
l’antica gnosi e la moderna teoria psicanalitica di matrice junghiana. Così le
domande restano senza risposta, mentre nella concezione teistica la risposta ci
sarebbe (se Dio sommo Bene ha creato il mondo, il male non può avere la stesso
statuto ontologico del bene, essendo piuttosto frutto della natura decaduta
dell’uomo). Ma tale concezione ovviamente non allontana il dramma,
l’inquietudine di cui sono perfetta testimonianza la poesia di Mario Luzi, di
Davide Turoldo e altri.
L’epica scarselliana offre
ampi spazi ai vincoli e agli affetti terreni (maternità, paternità,
coniugalità). In questo ambito non si può non segnalare l’infinita e travolgente
trenodia di Pavana per una madre defunta. Qui, come altrove, l’intuizione
poetica ha spesso la meglio (nel senso che produce gli esiti più interessanti)
sullo sguardo scientifico, oggettivante. Ad esempio, in Piangono ancora come
bambini (strettamente collegato a Pavana) l’io narrante, dopo aver
ipotizzato appunto che i morti piangano come bambini, inconsolabili per la
perdita del bene della vita, conclude: “Chissà se nel gelo dell’inverno | per
riscaldarsi sotto tanta neve | in quelle povere case diroccate | dei loro corpi
senza pace anche i morti | possono almeno stringersi insieme”. Ecco, è a queste
aperture, a queste brecce che si aprono nella costruzione narrativa scarselliana
che va decisamente la mia preferenza.
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Recensione |
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