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I libri di vera poesia sembrano balzare fuori dal disordine del mondo per metterlo temporaneamente tra parentesi. Le Langhe e i sogni appartiene senza ombra di dubbio a questo genere di libri: la sua forza consiste nel fatto che B.S. ha proiettato i suoi sogni in uno spazio geografico preciso (Le Langhe appunto, ma anche Torino, Macerata e altrove) e in un arco temporale altrettanto preciso (un anno all’incirca); oltre ai riferimenti toponimici intratestuali, ogni poesia, provvista di titolazione propria, porta in fondo pagina la data e la località di origine. Questa delimitazione spazio-temporale, oltre a convalidare la giustezza del titolo, si rivela ad una attenta considerazione idonea a realizzare un’efficace “messa in rilievo” di ogni unità testuale.

Il realismo sognante dell’autore ha bisogno di un punto di partenza fermo, di un abbrivio solido (una ragazza in un contesto o in un atteggiamento determinati, un elemento paesaggistico o stagionale o climatico, ecc.) che possa fungere da supporto dell’avventura onirica. Ma l’occhio mentale non opera di meno dell’occhio fisico. L’epifania lirica – abitualmente ma non meccanicamente introdotta da una interiezione – è preparata da un movimento di tipo narrativo-descrittivo. Si veda, ad es. “Via Cernaia” (p. 38). Il sogno dell’io è frutto del fresco stupore di fronte alla bellezza del mondo e alle sorprese della vita associata; questo sogno e quello delle creature viventi non è d’altronde meno vero dell’antefatto contestualizzante sicché tra l’uno e l’altro non si avverte nessuno scarto, e di ciò il poeta è lucidamente consapevole: “È un’altra descrizione, | vera così come vero è il sogno | di ogni vita” (p. 39). In Le Langhe e i sogni domina un’immagine ricorrente sino all’ossessività: il corpo nudo, seminudo o succintamente vestito di una femmina perlopiù adolescente – cui di volta in volta vengono assegnati nomi e atteggiamenti diversi – sempre contrassegnato dal massimo di perturbante seduttività. Tutto questo è vero, eppure c’è dell’altro: un’esplicita esigenza gnoseologica. Infatti Franco Pappalardo La Rosa, nella sua illuminante prefazione, così si esprime: “Le figure femminili che gremiscono i versi della raccolta allegorizzano [...] l’immagine cangiante della Verità che, come nelle antiche iconografie, è nuda” (corsivo del testo).

La lassa di endecasillabi (metro di gran lunga prevalente ma talora abbandonato in clausola), dalla morbida eleganza ritmica spesso infranta da improvvisi enjambements, è lo strumento metrico-prosodico che l’autore maneggia con sublime scioltezza piegandolo ad ogni sorta di situazione espressiva. Poesia irrefutabile dunque, tanto visiva quanto visionaria. Tuttavia quest’opera dell’illustre accademico è appena offuscata da un paio di crudezze lessicali attinenti ovviamente alla sfera anatomica; diciamo un cedimento di tono, stante il registro medio-alto (talvolta sublime) del lessico adottato. Chi ha detto che l’autocensura è sempre un male? Se è una forma di rispetto del lettore la trovo decisamente encomiabile.

Recensione
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