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È questo un libro decisamente insolito nel panorama della produzione attuale
per il suo taglio filosofico-antropologico più che lirico. Dopo la distruzione
dell’umanità il poeta, immaginando che rimanga un solo ed unico uomo, ne
descrive l’ambiente circostante e ne illumina il processo di regressione
mentale. Infatti "preserva se stesso come natura | ma quale vissuta caricatura |
della razza cui gli accade di sopravvivere" (p. 23/4). Quindi "l’ultimo uomo" è
un uomo assai improbabile poiché un ricorso vichiano della storia lo ha
ripiombato nella situazione di partenza: tutto senso, niente intelletto. Il
passato gli è uscito dalla mente, il futuro come progresso è inconcepibile, solo
la dimensione del presente gli risulta congeniale. Questo uomo, al contrario
dell’uomo quasimodiano "trafitto da un raggio di luce" (segnalo di passaggio che
De Cadaval ha scritto un saggio sul poeta di Modica), giace nell’ombra ed è
colpito dall’ombra (cfr. pp. 30-32). Si tratta, come ognuno può facilmente
intendere, di un’ombra concreta, sensibile eppure figurata, simbolica. A
quest’uomo, immerso in una natura ostile, avversa e indomita ma dalla
formidabile bellezza, resta solo un barlume di memoria, scintilla di umanità
pura, a distinguerlo dai bestioni del Paleolitico. Proprio a questo punto,
all’altezza della poesia "Colpito dall’ombra", avviene nel libro uno scarto
significativo: si passa dalla terza alla prima persona, cioè l’ultimo uomo non è
più raccontato ma fa tutt’uno con l’io poetante. Questo scarto mi sembra
chiaramente frutto di un’esigenza di rappresentazione immediata e diretta delle
vicissitudini del protagonista, ma anche l’indicazione che l’autore non si tira
fuori da queste, perciò annulla la distanza connessa all’uso dell’egli.
In fondo tutti possiamo essere o diventare l’ultimo uomo, lui per primo.
Molto interessante la suite finale che comprende tre poesie titolate e
indicate da cifre romane progressive. Vi si narra, ambientandola in un quadro
naturalistico di spietata durezza, la storia dell’incontro dell’ultimo uomo con
un gruppo di altri uomini che scalano la collina su cui si era confinato più o
meno volontariamente. La scena è caratterizzato dalla predominanza della roccia
e della pietra cui il protagonista sembra assimilarsi ("Lui stesso diventa
pietra" è il titolo della prima poesia della serie). A questo proposito mi
sembra opportuno notare che sin dai tempi di Adamo molte civiltà sono apparse e
scomparse ma la pietra, simbolo per eccellenza di stabilità, continua a
testimoniare le atrocità dell’umanità su questa Terra. Parlavo prima di
incontro: sì perché l’ultimo uomo, fino allora osservatore passivo della
vita circostante, stringe il braccio di un uomo graffiato dai rovi, effettua un
riconoscimento, uscendo finalmente dalla propria disperata e selvaggia
solitudine. Insomma il riconoscimento della comune umanità avviene grazie alla
fatica, alla sofferenza, alla polvere ("La polvere del braccio toccato si
confonde | con la polvere della mano che lo tocca"). L’ultimo uomo si
arresta proprio su questa apertura di speranza.
Poesia complessa, talvolta oscura questa di De Cadaval, ma decisamente
ambiziosa; si appoggia su una versificazione perlopiù ipermetra, di qualità
prosastica e corredata di una severa capacità ritmica. Nella sua ambizione a
parlare a tutti gli uomini fa pensare a Lucrezio, cui rinvia per certe immagini
possenti e apocalittiche; per la sua critica alla modernità sottintesa (ma non
troppo) in tutto il libro fa invece pensare a Eliot.
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Recensione |
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