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Le tre sezioni del libro sono
introdotte da esergo importantissimi sia per il loro contenuto concettuale, sia
per gli autori citati (Barthes, Bataille, Jabès,ecc.), sia per la loro capacità
di illustrare la poetica e la poesia di Capasso. “In musica, e anche in poesia,
tutto ciò che non è lacerante è inutile e volgare”: questa massima radicale di
Cioran è degna di essere posta in piena evidenza in quanto, oltre ad avere
l’onore della citazione isolata, fornisce una privilegiata chiave d’accesso a
Miraggi, che della lacerazione, e anche della dissonanza (“Accumulo
dissonanze”, p. 38) fanno la loro ragione primaria. La lacerazione è prima di
tutto testuale. Infatti, a dispetto di una armonica e graduale disposizione dei
testi nello spazio bianco della pagina, Capasso fa un’operazione che lascia il
segno, dislocando i segmenti linguistici su piani sfalsati e disallineando i
capoversi, sicché ne risultano componimenti ora concentrati ora rarefatti
(“lacerati”) sul piano della scrittura, caratterizzati – quest’ultimi – da una
straordinaria densità espressiva. Insomma le aspettative del lettore sono
decisamente spiazzate. Ma la lacerazione – è ovvio – investe anche altri ambiti,
da quello psicologico a quello intellettuale; direi anzi che investe l’intera
Weltanschauung dell’autore. Il titolo stesso appare indicativo di una volontà di
individuare e smascherare i vari miraggi che accompagnano la condizione umana
(primo di tutti quello dell’identità personale), e in particolar modo quella
dell’io poetante.
Si tratta di un’opera di
notevole livello per la sua capacità di scandaglio delle zone più oscure della
psiche e per i cupi bagliori di una forma espressiva spesso acuminata come una
punta metallica. Capasso, da poeta di lungo corso (nato nel ’35, formatosi in
quella fucina di varia sperimentazione che fu la rivista napoletana “Altri
Termini”, ha esordito nel ’76) ha scatti di lancinante, tormentosa bellezza
(soprattutto quando libera la sensibilità cromatica e allora il mondo torna
abitabile), a specchio di un’umanità braccata e stremata ma non arresa.
La sezione
centrale s’intitola Mosca: titolazione decisamente infrequentata. Si sa,
le mosche per essere sempre in moto, ronzanti e pungenti, sono esseri
insopportabili; si aggiunga poi che portano i germi delle peggiori malattie,
rendendo praticamente impossibile ogni protezione. Ecco perché un’antica
divinità siriana, Belzebù, il cui nome significa etimologicamente il signore
delle mosche è diventato il principe dei demoni. Non mi risulta che qualche
poeta se ne sia interessato, Capasso lo fa e fa di questo insetto, giustamente
poco amato, il correlativo della sua e nostra frenesia vitale, del nostro
febbrile inseguimento del vacuo e dell’inutile e di un’animalità assolutamente
ossessiva e deforme (“Ho imparato a conoscerti | Non sei il ragno dovizioso e
perfetto | Non sei il geco che si nasconde | Sei la luce e gli odori | – e ti
avventuri anche nell’ombra”, p. 31) con cui deve fare i conti un’esistenza
irreversibilmente sdoppiata. Concludo segnalando l’ottima introduzione di F.
Muzzioli.
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Recensione |
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