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Difficile sintetizzare in
poche linee il mondo de Le Grazie brune. È un romanzo denso che fa
sorgere infinite considerazioni di carattere stilistico ma soprattutto a livello
di contenuti.
Sullo sfondo di una Roma
sfocata, città brulicante e calda, si apre la ricerca di Manio Moresi che, per
il distacco con cui descrive gesti e azioni le quali normalmente coinvolgono la
sfera affettiva, ricorda all’inizio l’apparente freddezza di Meursault nell’Étranger
di A. Camus. Qui la voce narrante è quella di Manio: è lui che entra ed esce da
questa realtà di carne e di sangue, di odori e di sapori. La descrizione
accurata di ciò che lo circonda mostra un mondo in procinto di liquefarsi, come
in alcuni quadri di Salvador Dalì, dove certi simboli ricorrono ossessivamente –
le formiche, per esempio – e dove la sfera onirica si mescola al concreto
quotidiano, al tempo e allo spazio: presente e passato, realtà e irrealtà sono
immersi in un quadro lento e opprimente che danno una sensazione quasi di
estraneamento mentre il sogno diventa la chiara esplicitazione di ciò che Manio
pensa della vita, dei sentimenti, della società, del sesso… che qui viene
brutalizzato, dissacrato, vissuto come una pratica che tutti compiono o per
sfogo o per noia o per abitudine o quasi per una costrizione simbolica. “Non c’è
traccia di meticolosità, ma solo di smania di far placare un appetito che sa di
necessità del momento, lo stesso che mi ha guidato fin qui, in cerca di niente,
con il suo niente, desideroso di niente, anche se di sfogare una fame
nullificante, proprio perché abitudinaria e non voluta, come ormai è Giada”. Il
sesso è meccanico, risaputo, banale. Non ha nulla di vitale, nonostante parta
proprio dalle più vitali pulsioni. È macabro, asettico, freddo, associato a
odori, fetori, a espulsioni di liquidi corporali che sanno di morte più che di
vita, che sanno di disfacimento.
L’autore Velio Carratoni,
immerso da sempre nel mondo letterario, ne conosce profondamente la tradizione
antica e moderna e sono numerosi i riferimenti che trapelano nelle pagine del
suo romanzo – esplicitamente citati sia nell’introduzione di Dario Bellezza sia
nella postfazione di Donato di Stasi.
Il periodare è complesso,
ridondante, barocco: si poggia sul più piccolo e infimo dettaglio, accentuando
il senso di pesantezza dalla vita. I dialoghi tra i personaggi reali appaiono
talvolta non realistici, poiché finiscono tutti per esprimersi come il
protagonista, per parlare nel suo stesso linguaggio manierato e ripetitivo,
ridondante anche nei contenuti: Giada ripete mille volte ciò che pensa della
vita e dell’uso che fa degli uomini, Monica fa altrettanto per quanto riguarda
il rapporto che ha con i genitori… e così si ripetono gli stessi concetti di
mancata libertà imposta più da se stessi che dagli altri. Per fare il contrario
di ciò che viene imposto dall’esterno si fa spesso il contrario di ciò che dona,
in fondo, piacere e tutti i personaggi, compreso il protagonista, sembrano
fantocci guidati da chissà cosa di insulso e dalle loro voci monocorde parla
sempre lui, il quale esprime la propria disincantata visione di un mondo
flaccido.
Alla fine quella di Moresi più
che una ricerca diventa un fluttuare di pensieri e di affermazioni, di ricordi e
di realtà che si svolgono davanti ai suoi occhi: “Non mi reputo un voyeur, ma un
contemplativo dell’azione”. Ma poi, nelle ultime righe, c’è come un sussulto,
come una ventata che fa respirare e quasi sorridere.
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Recensione |
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