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Altri mondi poetici: Cina
Bei Dao: dalla Cina all’esilio
un viaggio nel linguaggio dell’esilio e nell’esilio interiore del linguaggio
Con un particolare ringraziamento
a Federica Beltrame.
Il 1° ottobre del 1949 viene
fondata la Repubblica Popolare Cinese e due mesi dopo, il 2 agosto, Bei Dao
nasce a Pechino, in una famiglia di intellettuali cosa che gli permette di
frequentare una delle migliori scuole della città. Nel 1966 scoppia la
Rivoluzione Culturale, e all’età di 17 anni Bei Dao lascia gli studi, come
moltissimi altri giovani. Da un lato travolti, dall’altro quasi sedotti dal
potere loro dato all’interno di questo movimento, molti giovani divenuti Guardie
Rosse partecipano, fra l’altro, ai ‘saccheggi’ nelle case degli alti funzionari
di partito accusati di essere elementi di destra. Anche Bei Dao inizialmente
aderisce con entusiasmo e fede politica alla Rivoluzione Culturale e come
Guardia Rossa partecipa attivamente al movimento organizzando razzìe non
propriamente autorizzate, quali i furti di libri in librerie chiuse dalle
autorità (da: La Piana, Un’intervista a Bei Dao, agosto 1994). Per lui
come per altri motivo principale di queste azioni era la possibilità di entrare
in possesso di traduzioni di libri occidentali proibiti, i cosiddetti “libri
gialli”, che solamente gli alti quadri del partito potevano possedere e leggere.
Gli unici libri cui la popolazione cinese aveva libero accesso erano quelli
scritti da Mao e i testi marxisti. Da ciò si deduce immediatamente
l’affermazione, anzi la dittatura, all’interno della società cinese, di una
lingua statica e monolitica, irrigidita, modellata sullo stile maoista che
condannava irriducibilmente qualsiasi riferimento al passato artistico-
culturale della Cina feudale e imperiale, così come qualsiasi accenno o
allusione alla letteratura e pensiero occidentali nella lingua scritta o parlata
della Repubblica Popolare Cinese. Una parola sbagliata era sufficiente per una
condanna a morte. Unico altro modello erano le traduzioni in cinese dei testi
marxisti, il cui stile doveva essere però aderente alle modalità espressive
ormai rigidamente codificate dal pensiero e dalla lingua cinese ‘epurata’ di
Mao. Tutto questo non poteva che
produrre omologazione, stagnanza ed irrigidimento nell’espressione linguistica
cinese, negazione di qualsiasi forma d’espressione soggettiva non ortodossa.
Qualche anno dopo l’inizio
della Rivoluzione Culturale, al fine di arginare gli eccessi d’azione delle
Guardie Rosse, quasi tutti questi giovani destituiti dal loro ruolo di
distruttori del vecchio ordine sociale (imperiale e feudale) e di forgiatori di
una nuova società, vengono inviati nei cosiddetti campi di rieducazione per
essere “rieducati da operai e contadini”. Bei Dao nel 1969 viene mandato in un
campo di rieducazione a circa 300 km da Pechino, dove per circa dieci anni
lavorerà come manovale in un cantiere edile.
Dopo la dolorosa prova della
Rivoluzione Culturale e il seguente amaro disincanto, in questo ‘nuovo’
ambiente, a contatto con una realtà cinese che nulla ha a che fare con quella
declamata nelle frasi fatte o slogan di partito così come negli infiniti
cartelloni murali rappresentanti operai e contadini dalle facce sorridenti e
rubiconde, sempre accompagnati dal sole rosso nascente, Bei Dao inizia a
scrivere poesia. L’impatto con la verità della miseria, della fatica del vivere
o del sopravvivere inscritti sul volto e sul corpo tutto di gran parte della
popolazione cinese abitante nelle zone rurali, o appena a 300 km di distanza da
una grande città, è irreversibilmente incisivo e decisivo per lui e per la sua
poesia.
Sarà proprio all’interno del
campo di rieducazione che Bei Dao avrà l’importante possibilità, insieme ad
altri poeti e scrittori, di far leggere i propri scritti e di leggere quelli dei
compagni, nonché di accedere alla lettura di quei libri proibiti che circolano
segretamente tra campo e campo, libri per lo più occidentali o di poesia cinese
classica, per lo scambio dei quali questi giovani cinesi rischiano ogni volta la
vita (da La Piana, cit.).
Queste letture squarciano il
muro di pece adamantina della lingua cinese ufficiale, introducono Bei Dao alla
possibilità di enunciare linguisticamente e poeticamente la necessità primaria:
la creazione di un linguaggio della differenza soggettiva, il rinnovamento della
lingua in termini di sperimentazione sulla base della propria esperienza,
l’assunzione d’identità e la dichiarazione di libertà individuale fino a quel
momento inconcepibili nei modi della ribellione e dell’aperta presa di coscienza
del proprio dissenso rispetto alla coercizione politica che fa del soggetto mero
oggetto. Bei Dao proporrà in seguito quale disegno-percorso della sua poesia lo
svolgimento di un paesaggio etico, in cui centrale è l’espressione soggettiva
peculiare all’individuo non nei termini in cui può venire intesa nella
tutt’altra storia dell’Occidente, bensì quale più potente forma di opposizione
al totalitarismo e quale più esplosiva modalità di trasformazione del linguaggio
cinese nell’arte.
Occorre riappropriarsi della
propria personale vicenda storica e umana all’interno della Storia, occorre
riappropriarsi della propria identità storico-culturale millenaria anche
attraverso il vino antico, la luna e l’acqua che scorre dei poeti classici
cinesi, occorre rielaborare la tradizione di un passato censurato quale demonio
feudale fondato sulla schiavitù e sull’oppressione del popolo, mentre la
schiavitù non è altrove: la schiavitù, Bei Dao lo sa bene, è anche qui ed ora,
nella Cina popolare.
Occorre leggere le traduzioni
di testi occidentali alle quali si sono dedicati molti poeti e scrittori cinesi
che poterono studiare e formarsi all’estero nei primi decenni del Novecento, ma
che, rientrati in Cina, subito dopo l’instaurazione della R.P.C. smettono di
scrivere e si volgono al tradurre, giungendo a creare un nuovo, peculiare stile
linguistico cinese, lo “stile della traduzione” (in opposizione all’ortodossia
della lingua ufficiale che bandiva qualsiasi espressione individuale e
‘deviante’, qualsiasi struttura sintattica o scelta di carattere veicolanti
allusioni-fantasma sovversive). Non a caso il suddetto “stile della traduzione”
diverrà un fondamentale punto di partenza nell’elaborazione del rinnovamento
della lingua e nell’operare artistico di Bei Dao e del gruppo di poeti che si
verrà a formare insieme e intorno a lui, tra i quali vanno citati perlomeno Mang
Ke, Yang Lian, DuoDuo, Gu Cheng, Jiang He, Shu Ting.
Dopo la morte di Mao, nel 1978
Deng Xiaoping, in lotta con i successori di Mao per l’ascesa al potere, sostiene
un’apertura all’espressione dell’individuo distinto dalla massa che s’incarna
nel movimento connesso al Muro della Democrazia, un muro di mattoni reale che si
trova a Xidan, un quartiere nel centro di Pechino. Qui qualsiasi cinese poteva
ora affiggere scritto su carta e pubblicamente leggibile il proprio pensiero
critico, le proprie dichiarazioni di dissidenza politica rispetto al maoismo o
l’espressione del dolore vissuto durante la Rivoluzione Culturale. In seguito
sul Muro di Xidan appaiono anche espressioni poetico-letterarie e lì viene
incollato pagina per pagina il primo numero della prima rivista non ufficiale
apparsa dopo il 1949: “Jintian” (Oggi).
“Jintian” viene fondata da Bei
Dao e Mang Ke nel 1978, tra i redattori ci sono molti fra i poeti già citati ed
altri, che la critica ufficiale cinese etichetta denigrandoli con il termine
“menglong” che significa oscuro, nebbioso, confuso, in quanto di null’altro
potevano accusarli se non di essere incomprensibili, scrivendo poesia in un
linguaggio per loro privo di senso, ambiguo e paradossale. La rivista, che si
occupa principalmente di poesia, diviene in brevissimo tempo il luogo in cui
molti autori trovano visibilità e un forum di discussione su poesia letteratura
arte e sulla situazione della cultura cinese, attraversando con le sue copie
ciclostilate la R.P.C. da un capo all’altro.
Fin dalle prime apparizioni
delle loro opere, questi autori usano vari pseudonimi per non essere
rintracciabili e puniti. Nel caso di Zhao Zhenkai, fu l’amico poeta Mang Ke a
coniare per lui lo pseudonimo Bei Dao, che significa isola del Nord, poiché
secondo Mang Ke “un’isola è il silenzio nel fragore dell’oceano” (da: Dan
Featherson, Un’intervista a Bei Dao, 1999).
I seguenti versi, tratti dalla
poesia Huida (Risposta) di Bei Dao, scritta intorno al 1978, apparvero
sul Muro della Democrazia e su “Jintian” e riecheggiarono per anni, come si
vedrà, tra poeti artisti ed intellettuali dissidenti nella R.P.C.: “...L’era
glaciale è finita, | perché ovunque è ghiaccio? | … | Che tu sappia, mondo, | Io
- non - credo! | Se mille sfidanti stanno sotto ai tuoi piedi | guarda a me come
al millesimoeuno. | Io non credo che il cielo sia azzurro, | … | Nuove
rotazioni e stelle luminose | ora costellano il cielo liberato, | sono i
pittogrammi di cinquemila anni, | sono gli occhi fissi dell’umanità futura.”.
Per tutta l’attività svolta in
quegli anni da Bei Dao nel campo della poesia e in quello culturale, si può
affermare che egli è stato anche (e sarà per circa un ventennio) la coscienza
sociale e politica dissidente della sua generazione, tesa a promuovere una nuova
etica della libertà dell’individuo. Bei Dao diviene portavoce di un comune
spirito ribelle, di una condivisa necessità di spogliare la corruzione sociale e
la distorsione del reale realizzata attraverso la massiccia propaganda politica
dell’ortodossia di tutte le sue maschere linguistiche. Tra nuovi contenuti e
nuove forme il poeta stava creando un nuovo stile ossimorico e paradossale,
simbolico e metaforico, spesso vicino al surrealismo e alla provocazione estrema
dell’assurdo, ma dall’inizio alla fine teso nell’impegno di dar voce ad una
nuova coscienza etica, lacerata sul nascere tra due realtà brutalmente
contrastanti da porre a confronto all’interno del proprio spirito interrogativo
e di incessante ricerca.
Il Muro della Democrazia e la
rivista “Jintian” ebbero breve vita. Nel 1980 il primo viene soppresso dalle
autorità, alla seconda giunge il divieto di pubblicare, accusata di essere
filo-occidentale.
L’ennesima svolta politica
vede infatti Deng Xiaoping (ormai consolidato nella sua ascesa al potere)
volgersi contro gli eventi del 1978 ora considerati pericolosi. Malgrado questo,
opere di Bei Dao apparvero in riviste ufficiali così come in pubblicazioni di
libri ufficiali. Esiste almeno una raccolta antologica dei poeti “menglong” o
della “menglongshi” (scuola o corrente della poesia oscura) datata febbraio 1988
e pubblicata a Pechino, che comprende opere dei principali poeti così
etichettati ampiamente commentate da critici ufficiali.
Il primo passaporto con visto
per andare all’estero su invito gli viene concesso nel 1985, e si reca a
Rotterdam per partecipare ad una manifestazione di poesia. Da lì si sposta in
Inghilterra, invitato ad insegnare all’Università di Durham per circa un anno.
Verso la fine del 1988 Bei Dao ritorna in Cina, scrive ed invia al Comitato
Centrale del Partito una lettera firmata da lui e da altri trenta intellettuali
che porterà ad una campagna di petizioni in cui si richiede la liberazione dei
prigionieri politici e degli attivisti democratici.
Nel 1989 riparte per Berlino
ovest, e lì si trova durante il massacro del 4 giugno in Piazza Tiananmen
(Piazza della Pace Celeste). Saprà solo dai mass-media locali che durante le
manifestazioni pacifiche in Piazza Tiananmen gli studenti recitano ad alta voce
sue poesie e che su migliaia delle loro bandiere bianche sono stati scritti suoi
versi, in particolare tratti da “Risposta” e da “Dichiarazione”, scritta nel
1970: “Non mi inginocchierò al suolo | permettendo ai carnefici d’apparire più
alti”. Da quel momento, accusato di aver fomentato gli eventi di Tiananmen, Bei
Dao non potrà più rimettere piede sul suolo cinese, qualsiasi pubblicazione di
sue opere viene bandita, e ritirate le già esistenti.
Le sue prime reazioni sono il
dolore (mai sopito) di non essere stato lì in quei giorni, la poesia “Dao wang”
(Requiem - per le vittime del quattro giugno) e, verso la fine del 1989 ad Oslo,
la decisione di riprendere la pubblicazione della rivista “Jintian”. Grazie alla
collaborazione di autori cinesi in esilio e di intellettuali occidentali, nel
1990 ne pubblica il primo nuovo numero.
Comune intento è far sì che la
nuova “Jintian” sia continuazione dell’originaria nel contesto dell’esilio. La
rivista sarà centro aperto di dibattiti e discussioni su poesia e letteratura
cinese e occidentale, così come luogo in cui accogliere e pubblicare opere di
autori cinesi in esilio e di autori cinesi residenti in Cina, spesso nascosti,
aiutandoli a far pervenire in Occidente le loro opere. In questo nuovo contesto,
“Jintian” diviene ponte culturale tra oriente e occidente e zona franca, una
terra di nessuno (e di tutti) libera da ingerenze politiche.
A tutt’oggi “Jintian” (di cui
Bei Dao è redattore capo) appare in quattro numeri l’anno e solo in lingua
cinese. Esistono però già tre antologie che raccolgono in versione bilingue
(cinese ed inglese) le migliori opere pubblicate in questa rivista dal suo primo
numero del 1978 fino ai numeri più recenti.
Dopo il suo ultimo breve
periodo trascorso in Cina alla fine del 1988, la sua vita sarà segnata da una
sequela di traslochi: Francia, Stati Uniti, Germania, Norvegia, Svezia,
Danimarca, Olanda, etc., fino al momento in cui riuscirà a stabilirsi a Davis,
California, dove attualmente vive e insegna.
Al 1994 risale il suo primo ed
ultimo tentativo di rientrare in Cina, dove vivono i genitori, la moglie e la
giovane figlia Tiantian, ma viene trattenuto in aeroporto e dopo poche ore
espulso quale persona non grata e reimbarcato per gli Stati Uniti.
L’esperienza dell’esilio, per
un poeta che giunge in Occidente senza conoscere a sufficienza nessuna lingua
straniera, è esperienza certo dura, ma anzitutto di solitudine, di esilio
interiore nell’esilio. D’altra parte per Bei Dao, come per molti altri poeti
cinesi in esilio, esiste chiaramente un risvolto più che positivo in
quest’esperienza: il confronto con una realtà, quella occidentale, in cui
rispetto a quel totalitarismo cinese che imbavagliava l’espressione
poetico-artistica al singolare, condannando l’intera concezione di soggettività
se questa non era entità operante “al servizio delle masse”, si assiste ad una
raffinata mise en scène della libertà d’espressione che tuttavia non nasconde,
dietro l’apparenza, l’esistenza di altra forma di prigione o asservimento del
linguaggio e dell’opera ad un altro tipo di ‘padrone’: il mercato editoriale e i
mass-media (cosa che, peraltro, sta avvenendo con ritmi molto celeri anche nella
Cina contemporanea). L’esilio in Occidente gli permette anzitutto di vivere
consapevolmente la libertà della non-appartenenza ad alcuna Nazione (senza per
questo venir meno al suo essere cinese come uomo e come poeta). Attraverso il
percorrere storie di altre nazioni o vite umane e loro linguaggi è proprio
l’esilio (malgrado e grazie anche alla personale sofferenza e a quella
solitudine che a tratti è isolamento) la sua preziosa occasione di rinnovare ed
arricchire sempre più la propria lingua e poesia. Esponendola completamente al
muoversi in essa di innumerevoli presenze del diverso, l’effetto non è di
alienazione o separazione bensì di interazione, a volte di paradossale unione
tra la percezione della mobilità del tempo spesso scissa dalla percezione dello
spazio (appartenente alle arti visive) nella poesia occidentale, causata
principalmente dalla struttura alfabetica della lingua, e l’estrema naturalezza
della dinamicità di tempospazio uniti nell’esperienza cinese della scrittura
ideografica.
Egli è sempre più consapevole
di quale meraviglia sia la lingua cinese per la poesia, di quali possibilità
espressive offra nella sua polifonia di livelli percettivi e significanti ogni
singolo ideogramma o carattere all’interno del verso. Anziché allontanarsi dalla
propria lingua perché troppo ostica, ulteriormente esiliante in Occidente, e
scrivere in una lingua d’adozione, come hanno scelto di fare molti autori
cinesi, fra i quali numerosi narratori, Bei Dao ha continuato a scrivere nella
sua lingua.
Dal 1986 ad oggi tutto quanto
ha pubblicato in poesia e in prosa è in lingua cinese: cinque volumi di poesia e
tre di prosa in versione bilingue o in traduzioni dall’originale. Tradotto (spesso
monograficamente) in venticinque lingue, candidato al Premio Nobel dalla fine
degli anni ’90, Bei Dao ci offre una poesia intensa, condensata e complessa
nella potenza visionaria delle sue immagini e dei suoi ritmi estremamente
musicali, poesia che non è campo di battaglia politica o suo strumento, anche se
inevitabilmente marchiata a fuoco dal personale background storico. Forte è il
dolore, l’amarezza di un isolamento che si traduce nelle forme del distacco
attraverso il grottesco, forte è anche la disperazione della separazione e del
disincanto, della “caduta degli dèi”, dell’agonico sogno. Lucida fermezza
interiore la tensione dell’amore che intride anche i versi più taglienti e
apparentemente nichilisti del desiderio primario che la poesia sia accoglienza
della pluralità di verità umane e storiche, nelle loro a volte deflagranti
contraddizioni. Non a caso tra i poeti più amati da Bei Dao incontriamo Paul
Celan, Garcia Lorca, Vallejo, Paz, T.S. Eliot, G. Ekelof, H. Transtromer, etc.
Poesia della convivenza
‘drammatica’ tra contraddizioni, dell’improvviso e dell’imprevisto, della quasi
totale abolizione della punteggiatura, della mancanza di soggetti espressi,
dell’omissione di quasi tutti i fondamentali legami sintattici della lingua
cinese contemporanea, come fossero superflue stampelle che impedirebbero al
lettore di farsi a sua volta poeta, intuendo nella mancanza strutturale la
limpida visibilità dell’invisibile. Da un lato egli riprende la
struttura sintattica o a-sintattica e lo stile della poesia classica cinese,
dall’altro fondamentale è la sperimentazione linguistica fino ai limiti più
arditi.
I suoi versi si succedono
spesso per giustapposizione, in ogni caso attraverso quella che Bei Dao
definisce “tecnica del montaggio”, dove i caratteri cinesi nella sequenza dei
versi sono immagini dinamiche di cose vive, dove interruzioni brusche, quasi
fratture del verso e scattanti riprese lineari fanno eco l’una all’altra. Poesia imagista cinese (il
riferimento a Ezra Pound non è casuale). Negli imprevedibili ritmi e sensi del
linguaggio dell’esilio, la diaspora delle parole crea indistruttibile unione tra
fuoco che brucia i banchi di scuola (cfr. “Lo specchio a due facce”) e fuoco che
rende leggibili gli ideogrammi cancellati sulla stele del tempio antico (cfr.
“Tempio antico”). Poesia dove la diaspora delle
parole che si reincontrano ‘altre’ crea indistruttibile unione tra vivi e morti.
In Italia sono
state tradotte circa una trentina di poesie di Bei Dao, alcune pubblicate in
Un pesce fossile ri-nato (a cura di Yuan Huaqing, Lanfranchi Editore, 1987);
altre in Nuovi poeti cinesi (a cura di Claudia Pozzana e Alessandro
Russo, Einaudi, 1996); altre in Poeti cinesi contemporanei (a cura di
Claudia Pozzana e Alessandro Russo, numero speciale di “In forma di parole”,
anno IX, n. 3, 1988); altre ancora in Poesia 2000 - Annuario critico (a
cura di Giuliano Manacorda, Castelvecchi, 2001). Le poesie qui tradotte sono
inedite in Italia.
Traduzioni a cura di Monique Sartor.
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