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Un verso principe della metrica italiana

Fisiologia dell’endecasillabo

Credo che non pochi siano indispettiti dal disinteresse che la maggior parte dei poeti dimostra per la metrica e il buon nascondendosi dietro l’alibi della libertà poetica. Costoro ritengono evidentemente metrica e ritmo essere orpelli d’altri tempi; la parola d’ordine è “progresso e innovazione”, ma non essendo capaci di innovare lo stile e i contenuti, pensano di innovare la poesia demolendo le leggi della metrica.

È indubbio invece che un ritmo cadenzato susciti un misterioso godimento. Fin dalla notte dei tempi una molteplicità di forme ritmiche quali la danza, il tam-tam, la musica, le filastrocche, perfino i dondolii delle culle e delle altalene, hanno esercitato un fascino particolare. Gli psicologi spiegano quelle piacevoli sensazioni come la rievocazione di quelle mai dimenticate del periodo prenatale, in cui il ritmo del cuore e del respiro materno erano percepiti come un sottofondo prevalente e continuo, costituendo un imprinting indelebile. È dunque assolutamente verosimile che anche il ritmo dei versi poetici ricordi le delizie della vita fetale. La funzione preminente della metrica è stata appunto quella di disciplinare la successione di accenti, pause e sospensioni di fine verso; l’ottimizzazione di questa è la causa del piacere che si ricava dall’ascolto o dalla lettura di un verso bello e armonioso. Anche chi legge in silenzio infatti “declama”, seppure dentro di sé.

Ebbene, fin dalle scuole elementari abbiamo familiarità con diversi tipi di ritmi e di metri, da quelli più velocemente cadenzati e con versi corti, tipo filastrocche, a quelli di più ampio respiro in cui la cadenza è più lenta, spesso maestosa, cioè decasillabi ed endecasillabi. Tuttavia – a parte le filastrocche dell’infanzia che accompagnavano il dondolio della culla o i giochi dei più grandicelli – è indubbio che nell’adulto siano i metri di più ampio respiro a procurare le soddisfazioni della poesia. Sta di fatto che la poesia si è fin dai tempi più antichi stranamente stabilizzata intorno all’endecasillabo, realizzando con esso la parte più importante della sua produzione. Evidentemente è il tipo di metro più amato. Ma perché?

A questo punto è necessario ricordare che nella lettura, come nella recitazione, il capoverso non è casuale: esso è lì con la funzione ben precisa di breve sospensione della lettura fra un verso e l’altro, e a chi declama serve per poter rapidamente inspirare quell’aria ch’egli dovrà poi più lentamente espirare modulando i suoni nella declamazione del verso successivo. Bisogna purtroppo osservare che ben pochi fra i dicitori e i recitanti, spesso nemmeno gli attori consumati, fanno attenzione a questa breve sospensione del capoverso; la maggior parte la ignora e declama i versi come se fossero scritti tutti di seguito come in prosa, introducendo soltanto le pause suggerite dalla punteggiatura o dal loro estro interpretativo e riprendendo fiato quando gli pare. Ma in tal modo essi alterano il testo facendo grave torto all’autore, dato che questi, avendo interrotto il verso proprio in quel punto anziché in un altro, desiderava indicare al dicitore dove egli dovesse tirare il fiato, attirandone così l’attenzione su un punto del fraseggio e non su un altro.

Chiunque declami correttamente i versi, curando di far sentire la sospensione ad ogni capoverso, avrà potuto constatare che i versi troppo corti non si sa come leggerli: velocemente o lentamente? Mentre quelli di certi poeti “moderni”, se più lunghi di undici sillabe, sono difficoltosi e alquanto sgradevoli da leggere. Sembra cioè che esista dentro di noi una misura ottimale entro cui siamo abituati a far entrare la lunghezza del verso, una specie di “calco” in cui può entrare comodamente solo il numero di sillabe corrispondente all’endecasillabo, non di più e non di meno. È illuminante ascoltare i cantori di stornelli popolari, ma anche certi attuali cantautori, i quali non osservano certo quest’aurea misura di undici sillabe: quando il verso contiene un numero di sillabe minore, essi lo “allungano” mediante vocalizzi vari; e quando ne contengono troppe lo “comprimono” accelerando la recitazione, in modo da farle stare tutte dentro quella misura, quel modulo misterioso ch’è in noi. Tutti ormai avranno capito che quella misura misteriosa altro non è che la lunghezza dell’espirazione, il tempo cioè in cui il cantore, o il recitante, fa passare l’aria attraverso le corde vocali per produrre le parole, prima di tirare il fiato alla fine di ogni verso. Il capoverso è il punto in cui l’autore ha voluto che si inspirasse; e il suo estro creativo approfitta per fare anche di questa indispensabile sospensione fisiologica un mezzo espressivo: evidenziare cioè l’una o l’altra parola. Evidentemente l’endecasillabo contiene il numero di sillabe ottimale per essere emesso comodamente nell’intervallo di un respiro senza dover tirare il fiato in un punto qualunque non contemplato dalla  pratica della lingua. Chiunque infatti può constatare, con un po’ d’auto-osservazione, che se si aumenta il numero di sillabe oltre una soglia tollerabile (che a me pare di poter determinare in 12 sillabe), il ritmo della declamazione si spezza: si è costretti a cercare una pausa nel mezzo; ma dove, se non vi è alcuna indicazione? Ciò si traduce in una sgradevole incertezza nella lettura, si inciampa continuamente, si deve tornare indietro, rileggere di nuovo, inventare cesure che non sono scritte, pause in cui respirare. Addio scorrevolezza! Cosa resta del godimento che il testo avrebbe potuto donarci? Similmente, quando il verso è troppo corto per un solo respiro (talvolta è composto addirittura da una sola parola, come in certi poeti che si credono moderni) non si può certo allungarne la durata coi vocalizzi, come fanno gli stornellatori; si ottiene quindi solo la distruzione di ogni ritmo e – cosa ancor più nefasta – anche la distruzione della sequenza sintattica, cioè del pensiero: la comunicazione perde ogni efficacia, diventa simile a quella della prosa, non avviene più tramite la scorrevole efficacia della poesia.

La necessità di adattare il numero di sillabe (o la loro durata) alla durata di emissione della voce è un fatto assolutamente universale: appare ancor più chiaramente nei cantanti lirici e nel modo di suonare di tutti gli strumenti a fiato, in cui è il numero e la durata delle note a doversi adattare alla durata del respiro. Si osserva anche negli strumenti ad arco, dove il respiro non c’entra affatto ma è vi è pur sempre un fattore condizionante: la lunghezza dell’archetto e quindi il tempo ch’esso impiega a strisciare sulle corde. Anche in questo caso, per quell’attimo necessario ad invertire il senso del movimento, si osserva una sospensione del suono, proprio come accade per la voce durante la ripresa di fiato.

È interessante infine notare quanto queste originarie limitazioni del respiro, come dell’archetto, abbiano condizionato tutta la storia della musica, che ne ha dovuto tener conto nello sviluppo della scrittura musicale coinvolgendo così anche gli strumenti a tastiera, che pure non hanno vincoli materiali di respiro o di lunghezza d’archetto. Fu per questo, che nacque alle origini la necessità di segnare sul rigo musicale l’inizio e la fine di ogni tratta (la cosiddetta battuta, che sarebbe l’omologo del verso), mostrando ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, le comuni origini ritmiche di musica e poesia.

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