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“Sentivo, durante l’operazione, una gioia irrequieta per il fatto di non essere libero”, afferma Onano ad opera compiuta, in merito all’esercizio impostosi con questa silloge. Eppure, la sua, è stata un’azione di massima libertà. E non è un caso che, leggendo e riprendendo i suoi pentecaidecasillabi (son quelli che qui la fanno da giganti) salissero alla memoria le regole del monachesimo primitivo. Perché ci sono due modalità estreme di affermare la propria libertà: quella del nomadismo e quella dello stilita. Due esperienze agli antipodi. Ma era la seconda, forse, la goccia mancante alla grande sete del poeta: la libertà di cimentarsi con la non-libertà. Meglio ancora, la libertà di misurarsi al limite. E in altre parole, allora, di conferire l’espressione massima a quella ventura che chiamiamo vita e che, con ciò, viene contemplata in un tutt’uno di tessuto e trama e nell’intreccio pregiato di figura e simbolo, di immagine e allegoria. Sia in pre-visione che in post-fazione. Tanto che ogni volta che si fa di conto t’accorgi che sempre in questi versi il detto è detto per detto e il non-detto è detto per non detto: è questa è libertà!

Non è libera, infatti, l’ape, non la formica; non è libero il gabbiano: libero è l’uomo (perfino d’annientarsi) perché è insieme individuo e persona, e può rincorrere il fluttuare dei sogni e decifrare le sagome concrete della forma “quando sono le donne propizie radunate | che seguono danze mimetiche di nutrimento”. E il nutrimento è storico se, già dal titolo, la terra che porta a tramonto non è materna ma “maternale” (sec. XIV).

Questo solo come invito alla lettura. Ma non basta e non può bastare per una poesia che va dritta alla luna reggente il tempo del non-tempo, dentro e nell’universo intorno. Per questo, anche, Omero è cieco.

Cosa conta davvero allora? Il viaggio come viaggio in sé. Anche se al traguardo dovessimo osservare: “Mi è dispiaciuto partire | all’alba della giostra | senza la rosa canina | colorata di tabasco”. Perché sarà comunque l’alba…

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