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Questo testo di Marica Larocchi è l’attuale punto di arrivo di un percorso, che ha preso l’avvio e prosegue nell’indagine sul crinale di splendore e limiti del senso di fare poesia. Splendore come appunto oro resistente agli oltraggi del tempo, e limiti come altro da sé, cobalto, con cui quello splendore si confronta. La sinestesia del titolo è polisemica, riferibile sia a due metalli che a due colori. Entrambi i sensi sono ricchi. Nel primo caso, il fascino e la stabilità dell’oro, il suo essere paradigma di valore, che può tramutarsi in segno di potere, di staticità e distacco incurante; al contrario, il cobalto è friabile ed erodibile dagli acidi, ma la sua instabilità può diventare isotopo fonte di energia radioattiva, curativa o distruttiva, dipende sempre da chi la usa.

Nel secondo caso, il brillìo dorato accostato al blu del cielo, come oltre irraggiungibile. Tutti e due i casi, se letti nei loro molti strati di senso, compongono dunque una diade che rompe l’icona di un possibile assoluto.

L’immagine del titolo pone così il gesto poetico nella coscienza e complessità del suo fare, rafforzata e non indebolita dalla ricerca di un rapporto profondo con tutto ciò che è altro da sé, come differenza e limite. È questo che può fornire l’antidoto salutare ad esaltazioni nate proprio da una male intesa autonomia del testo. Da Mallarmé in poi, in particolare per chi come la Larocchi a tale linea si richiama, la poesia ha posto l’accento sul suo fare, come coltello dalla punta splendente, che incide il ventre del linguaggio e ne esalta il senso della sua finzione per affrancarlo dal decadimento dei significati contingenti. Ma la poesia è pur sempre lingua e forma del mondo, che è complesso perché contiene materia sublime e materia deteriore, da espellere. La complessità del linguaggio nasce da quella di tutto il Resto, di cui non è mimesi o rappresentazione, ma metamorfosi, che non può vivere staccata in un cielo altro, pena la caduta e riduzione di tutto il suo splendore a una forma di ideologia del testo.

Il testo di Marica Larocchi mostra in vari modi questa complessità. Oltre che col tessuto testuale in senso stretto, con i vari elementi paratestuali che lo contornano: titoli, dediche, date, luoghi e in particolare le Annotazioni in calce al libro;  briciole di Pollicino per ricordare che il testo non si costituisce come perla nel vuoto, e rendere presente l’esperienza (diretta o indiretta) del Soggetto Storicoreale (Ssr): questa fornisce magari carne infetta e deperibile, ma è l’origine esterna-interna che vive nei mille strati del corpo. Di cui il Soggetto Scrivente (Ss) è il laboratorio di metamorfosi che traduce e reinventa nel suo alambicco di parole tutte le lingue che costituiscono l’identità soggettiva.

È fuori di dubbio che la ricerca poetica della Larocchi si inscriva, come dice Stefano Agosti nella prefazione, “entro una linea marcatissima della ricerca poetica novecentesca”, che, “per lo meno per l’area francese, si qualifica appunto come poesia della poesia”, a partire da Mallarmé “a Valéry, e poi a Saint-John Perse…a René Char”. L’analisi di Agosti è proficua, anche per tentare qualche ulteriore passo. Richiamandosi per esempio a Fato (Milano 1987), di cui pure stilò un saggio introduttivo, dice: “Già là, il campo semantico relativo al linguaggio occupava quasi interamente l’orizzonte espressivo dell’autore, asservendo a se stesso le varie aree di esperienza del Soggetto: culturali, autobiografiche, speculative e così via. Agli elementi verbali relativi alla lingua, toccava insomma il compito di forcludere tutti gli altri elementi delle varie aree espressive, cui erano riservati solo valori e funzioni di connotazione.”

Rispetto a Fato, in L’oro e il cobalto c’è una “progressione verso l’abolizione del margine… tra l’esperienza vissuta e la sua omologazione verbale.”; fino all’apparenza e provocazione (tanto è contraddittoria rispetto alla poesia finzione) che fa dire ad Agosti: “il margine tra il vissuto e il detto risulta abolito.” Implicito che tra i due campi di esperienza può essere immaginata solo un’adiacenza, mai una riduzione dell’uno nell’altro, altrimenti si cade in una forma di ideologia della verità: l’alterità rimane, e per fortuna direi, perché è fonte di arricchimento reciproco.

Questa tensione adiacente è una delle due polarità di questo testo. L’altra è proprio la cancellazione apparente di quel margine, fagocitato e fatto sparire in un mantello magico che rischia così una forma di ideologia del testo. Tra questi due poli tende a prevalere il primo, per varie ragioni che cercheremo di dispiegare soffermandoci su qualche testo; ma in primo luogo perché le modalità di linguaggio dell’Es (Mod-Es), oltre a essere controbilanciate dalle modalità di linguaggio dell’Io (Mod- Io), agiscono coinvolgendo tutta la ricchezza dei molti piani noetici su detti, dalla fascinazione sonora, alle immagini mitiche e naturali, ai ritmi elementari dei versi che rompono costantemente quelli della struttura semantica delle Mod-Io, alle pulsioni profonde che emergono attraverso termini legati all’eros, a tutto il corpo, alla natura, che pur tradotti e depurati talvolta in figure di lingua (vedi per esempio: “deflora tralci | d’astratti giubili”, p. 16; “all’imene intatto | degli echi”, p. 18; “stelo folle | di vocale”, p. 19; “mie sillabe, mie | fate!”, p. 22; “cunicolo d’orme, | … | di note aguzze”, p. 27; “festoni di sillabe”, p. 65) trasfondono al testo calore vitale, perché segni forti di tutto ciò vive fuori, nell’altra vita.

È già la molteplicità di questi piani che riduce il rischio dell’altra polarità, creando una forma che è sì collocata all’interno della ricerca estetica e storicoculturale chiamata poesia della poesia, ma non cade mai nella sua estremizzazione chiamata poesia pura, perché non dimentica e non fa dimenticare col suo canto ammaliante il Resto e la lingua senza parola da cui proviene.

Ci sono alcuni versi di p. 65 che dicono in forma di domanda: “Quanti imbarazzi | ci condurranno al risveglio | provvido | lungo festoni di sillabe, | … | tra colori che | l’anima secerne | dalle sue | fervide ferite?” E c’è una parola che ricorre, ed è cilicio. Sono segni che indicano nel corpo-parola una ricerca di misura incessante con la molteplicità di sé e di tutto. La parola cercata non è qui concepita come una ininfluente catenina d’oro, puro ornamento del corpo, ma forza che lo costringe in un’altra sua forma.

Recensione
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