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Il legame tra Noemi e Emerico
Giachery è così stretto nella sua perfezione umorale che i due critici si sono
messi a scrivere anche libri in comune, firmati scherzosamente Noemerico nelle
affettuose dediche.
Alludo a Ungaretti
‘verticale’, secondo testo critico cofirmato dopo Pas de deux per la
poesia di Alberto Caramella. Testo, questo su Ungaretti, originale di coerenza
semantica e spesso logica, pur essendo conservata da entrambi la propria
tensione centripeta di giudizio e di linguaggio.
L’Ungaretti ‘verticale’,
secondo l’immagine di Umberto Saba, è un Ungaretti poco o niente segnalato dagli
addetti ai lavori nella sua pur complessa spiritualità, tesa alla conferma di
certezze di cui l’anima umana ha indiscutibilmente bisogno e altrettanto
indiscutibile diritto.
I saggi di Noemi sono
intercalati con quelli di Emerico in una danza interpretativa sempre più
esplicita, al seguito di un’attitudine esplicativa o parenetica nel gioco dei
significati. Ma per agevolare la comprensione del testo ai lettori è forse bene
elencare i saggi in sequenze separate.
Noemi (non mi se ne voglia se
userò qualche volta i nomi di battesimo dei due autori, per evitare confusioni
col bisticcio del cognome) comincia il suo iter personale con “La poesia
impoverita” approfondendo il progetto di lavoro proposto da Emerico nel suo
“Preludio” circa l’indagine da adottare per l’autore in genere e, nella
fattispecie, per Ungaretti, se si debba valutare in che misura il canto del
poeta sorga dalla necessità di esprimere il vero o da un bisogno di astrazione
dalla realtà o di fuga dalla medesima. La conclusione è che nella più alta
poesia di Ungaretti il poeta sfida con sofferente impulso del dire la
possibilità di rendere tangibile il pensiero con la parola che emergeva, a detta
dello stesso Ungaretti, dal “porto sepolto” del suo spirito. In “L’uomo della
pace” la Giachery prende a prestito l’esile libretto ungarettiano, come
lei lo chiama, “Il porto sepolto” – prima espressione tratta dall’esperienza di
guerra – per evidenziare la totale rinuncia del poeta alle idee trionfalistiche
di Gabriele D’Annunzio e il senso che Ungaretti dava invece alla pace, pace
matrice di ritmo esistenziale, di abbondanza d’amore, di armonia e di
quant’altro provochi una duratura alleanza tra gli uomini. Segue il saggio
“Noia: elusione, vizio, accidia?”, un’analisi precisa lungo le tappe della
produzione ungarettiana derivata dal modello petrarchesco, col quale autore
Ungaretti trova frequenti rispondenze tematiche (petrarchismo “d’animo”, lo
definisce l’autrice) di quello che viene definito “uno stato di vacanza”, di
“vuoto”, diventandone l’accidia una metafora al di là dell’ego, lo stato
irreversibile dell’uomo che non trova risposta alle sue eterne lancinanti
domande. Un’altra acuta informazione della Giachery è quella sul legame elettivo
tra Ungaretti e Blake (”Un incontro di destino”) che il Nostro si mise a
tradurre per arricchire il suo patrimonio linguistico, svincolandosi da problemi
di tecnica, come egli dichiara, nei quali gli pareva d’esser caduto, ma anche
per sentirsi in sintonia con un autore che si chiedeva perennemente il perché
dell’invisibilità e del silenzio di Dio, il perché del suo nascondersi dietro
alte nuvole di cielo. Noemi chiude con “I volti del barocco”, un’altra proposta
a favore della ‘verticalità’ ungarettiana, ossia la bella conversione di
Ungaretti al barocco dopo una lunga passione per il gotico, essendo stato
folgorato, per sua confessione, dall’incontro culturale con Michelangelo – e le
sue ultime Pietà – nella cui drammatica tensione avrebbe riconosciuto la
matrice dello stile illuminato.
La prima prova di Emerico
porta il titolo di “Preludio: l’opera-vita di Ungaretti”. L’incipit apre il
testo con un’allusione felicissima all’avventura letteraria di Giovanni Verga,
approdato felicemente ai Malavoglia da Tigre Reale ecc. quando scoprì la sua
sicilianità. Così il Giachery si dichiara pronto a tracciare l’ipotesi di lavoro
della figura di un Ungaretti di questo tipo, consapevolmente o inconsapevolmente
evocando Aristotele che parlava della storia (fabula) come della sintesi
dell’eterogeneo. Basti pensare, sostiene il critico, che soltanto a ventotto
anni Ungaretti faceva i conti con la sua vita e la sua opera scrivendo quella
memorabile poesia che è “I fiumi”. In “Presenze e segni del sacro” il Giachery
affronta subito, partendo anche qui dalla frase di un grande, Hölderlin (”nel
tempo della povertà il poeta canta il sacro”), che non si può valutare l’opera
di Ungaretti emarginandone l’elemento sacro di cui non solo si avverte la
drammatica presenza, ma che incide profondamente nel canto del poeta come
perenne ricominciamento e rinvio verso destinazioni supreme ma praticabili,
dilatabili, segnali di gloriose rivalse sulle apparenze. Segue una “Breve sosta
nell’area degli Inni” i quali, nonostante il lettore provi difficoltà e,
talvolta, disagio nel seguirne l’uniformità nella sequenza, tuttavia il loro
carattere è assolutamente unitario: “per non essere capiti alla rovescia, non
vanno separati l’uno dall’altro”. “Il barocco a Roma” del Giachery chiude il suo
excursus critico sulla “verticalità” di Ungaretti col perfezionare quanto già
detto da Noemi sullo stesso tema, e cioè l’innamoramento del poeta per la Roma
barocca, con le stagioni rinnovantisi che ne dipingevano le tonalità diverse,
dando il primo posto nella conoscenza degli uomini e dei fenomeni naturali a
Scipione Maffei (pensiamo da quanti respiri venivano scaldati quell’atmosfera
incantata, quel bruciante momento, non ultimo il respiro di Giorgio Vigolo...) e
i vari rossi del cielo, i porpora, i pallidi, il “rosso della passione, il rosso
gloria, tutti rossi nel rosso che il vecchio travertino e la torpida acqua del
Tevere ingoiavano negli estivi tramonti di Roma...”
Questo lavoro a due voci di
linguaggio e di pensiero che è l’Ungaretti “verticale” di Noemi ed Emerico
Giachery rappresenta una mediazione originalmente speculativa in uno spazio
della nostra letteratura ostracizzato e negletto come processo di conoscenza
interiore, come reversibilità d’espressione, come relazione di contestualità
storica. È la vicenda interpretativa di una zona buia che passa, dal mistero,
alla verità trionfante come la calviniana città di Zermude, che non aveva
identità in sé ma la cultura di chi la guardava, le dava forma. Ora quella di
Ungaretti ce l’ha.
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Recensione |
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