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È l’Autrice stessa a fornire,
nell’Introduzione al volume, alcune prime coordinate esegetiche entro cui
interpretare il senso e le intenzioni di questa sua ultima opera: “La rosa
indigesta si presenta sotto forma di contrasto, […] tuttavia essa è
ingannevole e suggerisce vari tipi di letture. Si tratta di una forma mentis
ironica e drammatica che travalica, in questo caso, il genere. […]
Ispirazione, sperimentalismo si trovano uniti, senza che abbia la pretesa di
rivalutare il genere ma di giungere ad un mio punto di arrivo che si sta già
aprendo nel contrasto verso nuovi orizzonti”.
Indubbiamente, ciò che per
primo si intravede attraverso questa lente (auto)critica è il richiamo,
intimamente sentito, alla tradizione, alle sue forme e ai suoi echi tematici,
sebbene metabolizzati in maniera originale e sintetizzati tramite canoni
(estetici e psicologici) propri della contemporaneità. Un discorso certo non
nuovo per una poetessa come la Lenisa, attiva a partire dagli anni ’50 ed
apprezzata sin d’allora per la competenza tecnica che contraddistingue la sua
ormai ampia produzione lirica: una competenza testimoniata anche dalle
riflessioni presenti nella breve ma illuminante nota dedicata a “L’esperienza
metricologica” che suggella questa raccolta.
Ecco dunque le numerose
citazioni, tratte dalla migliore tradizione lirica italiana: Leopardi, Foscolo,
Manzoni, Gozzano, Calabrò; ecco le riprese cum variatione da classici
come Saffo, Platone, Dante, Shakespeare; ecco le dediche o i richiami più
attuali a Capasso, Sanguineti, Penna, Campana… Una congerie di materiali
galleggianti in un mare ispirativo sempre mosso, capace di raddensarsi in
sberleffi epigrammatici e stanze ironicamente autocelebrative, oppure di
sciogliersi luminoso in versi dal fascino evocativo, secondo i dettami di una
poetica talvolta giocosamente narcisistica e quasi “privata”, talaltra più
intelligibile e aperta. Denominatore comune dei vari componimenti (poco più di
un centinaio, e suddivisi in tre sezioni: la prima, eponima, la seconda
intitolata “I Fragmenta. Canzoniere bifronte”, l’ultima dedicata a “Priapee e
altro…”) è comunque – per dirla con Sergio Pautasso, presente in quarta di
copertina con un incisivo commento all’opera – “una tensione linguistica
esercitata su tutto ciò che è amore”, la quale si traduce, nelle prove migliori,
in una poesia ad alta immaginatività erotica, insieme seduttiva e dolente,
gaudente ed allegorica, come si può vedere in questi versi: “Versarti in Lei
come si versa | l’olio | dal fine becco nella conca calda. | Non spada o lancia
né cuneo | a spaccarla, | legno giovane che piange, | sfrigola ad essere
bruciato” (“Il dubbio e l’epilogo”); “E gli dice: dipingi la mia schiena! | Ride
d’azzurro: | Voltati di dietro | ed alza la maglietta. | Come strada | maestra
dalla nuca alla vita sottile | il Nudo appare: | un bellissimo schermo ancora
intatto. || S’appressò, la toccò dove rinascono | sempre le ali, così incurva un
poco | per i pesi | soavi | e tutta la baciò che fu pennello | la sua lingua
sapiente” (“Pittore da marciapiede dell’est”).
Molteplici e diversificati
sono i temi toccati, così come le voci che si alternano a contrappuntare questi
“Contrasti” amorosi, sebbene, come abbiamo visto, siano tutti – temi e voci – in
vario modo intrisi dei medesimi umori “erotici”, e comunque non esaminabili nel
dettaglio in queste poche righe. Vorrei, piuttosto, richiamare una cifra
stilistica peculiare a molte di queste poesie, uno stilema che via via, nel
corso della lettura, assume un rilievo psicologico e una icasticità notevoli: mi
riferisco alla tmesi (vale a dire alla parola “spezzata”, spesso in spericolato
enjambement tra un verso e il successivo) e alle figure etimologiche o alle
paronomasie che ne derivano. Pochi esempi saranno sufficienti: “Il ri- | morso?
| Il sangue sulle labbra dopo il morso”; “No, il veleno no! Pre- | ferisci con
un’arma da taglio ben affilata”; “La mia poesia è con (fusa), bi- | sogna andare
sempre più oltre”; “È Maria Grazia! Come de- | cantarla | dentro il setaccio che
rimanga l’oro?”. Il gusto per il gioco linguistico che queste invenzioni
tradiscono sottende, a ben vedere, un’intenzione più alta, tesa a scoprire i
sensi riposti di una parola – quella poetica, che fra tutte è la più menzognera
e insieme la più vaticinante – capace al contempo di rivelare e nascondere, di
mostrare e dissimulare, al punto da far giustamente ammettere all’Autrice, in un
efficace aforisma: “Quanto «…mente» la lingua italiana! È la più inventiva e
bugiarda…”.
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Recensione |
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