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Avvince per l’eleganza precisa ed energica del linguaggio, convince per la finezza esegetica con cui scandaglia i singoli testi, nonché per l’agile capacità di sintetizzare in pochi, icastici tratti, fenomeni culturali anche molto complessi. Questa ponderosa (e assai ponderata) raccolta di saggi critici di G. Linguaglossa – poeta, saggista e traduttore nato ad Istanbul nel ’49 e residente a Roma, ove dal ’93, tra l’altro, dirige la prestigiosa rivista Poiesis che abbiamo annotato nel primo numero di Scorpione letterario – si pone tra i migliori e più illuminanti compendi di critica letteraria militante che, negli ultimi anni, hanno cercato di definire le essenziali linee di tendenza presenti nella turbinosa galassia di voci poetiche risuonanti, nel tardo Novecento, lungo tutta la nostra penisola. Un’opera che, diciamolo subito, potrebbe dare le vertigini. Tra i tantissimi, dotti contributi (intorno a più di centoventi autori contemporanei) qui raccolti, sembrerebbe infatti alta la probabilità di smarrirsi, di perdere il senso di una misura che, teleologicamente orientata, dovrebbe invece aiutarci a vagliare – e a porre in relazione reciproca – lo spessore e la qualità delle varie voci via via auscultate. “Potrebbe”, dicevo, “sembrerebbe”... Senonché questo rischio è egregiamente azzerato dalla sapiente regia di Linguaglossa, che ha elaborato e coordinato le varie sezioni dell’opera in maniera tale da condurre un discorso coerente, coeso, e sempre sorretto da robusti appigli gnoseologici e linguistici. Ciò che infatti più colpisce – e gratifica il bisogno, che ha il lettore odierno di poesia, di attingere ad un “mediatore esperto” capace di proporgli una strutturata visione d’insieme dei plurivoci fenomeni culturali contemporanei – è la capacità cogente dell’autore di raccogliere i membra disiecta di un discorso che potrebbe altrimenti risultare viziato da un alto tasso di aleatorietà e frammentismo, e di incanalarlo – tramite un indefesso ed equilibrato gioco di analisi e sintesi – lungo alcune coordinate speculative forti e filosoficamente necessarie. “L’unica via di uscita, credo, dalla crisi – ammette Linguaglossa – è forse proprio quella di tentare di ricostruire un centro, una ipotesi che agglutini e ricompatti le spinte [...] centrifughe”. Il che non significa – come ha invece ribattuto qualche detrattore (vedi il riferimento alla polemica con Carla De Bellis, poetessa e critico arpinate) – utilizzare delle “gabbie aprioristiche” entro le quali irreggimentare gli autori recensiti, nè, tantomeno, formalizzare una dogmatica episteme entro cui la poesia “autentica” dovrebbe necessariamente inscriversi, bensì porsi con appassionato vigore (e porre continuamente ai poeti, ai critici, ai lettori stessi) alcune “domande radicali” che, sole, possono darci il senso di cosa voglia dire ancora oggi “fare poesia”, e di quanto questa poiesi possa davvero incidere nella nostra esistenza e aiutarci a costituire, attraverso una efficace e aperta “rappresentazione segnica del mondo”, una nuova e vitale Weltanschauung. Senza queste “domande radicali”, infatti – avverte l’autore – “la poesia è destinata a perdere forma e sostanza e a sopravvivere a stento come un innocuo oggetto di oreficeria, privo di valore culturale critico”, e la critica “scadrebbe a mera ciarla [...] e si ridurrebbe a pura ipocrisia”. Ma come è strutturata questa silloge di interventi (già pubblicati, tra il 1993 e il 2002, sulle riviste Poiesis e Hebenon)? Quali sono la teoresi estetica e gli imperativi etici ad essa sottesi? “Appunti critici”, con una pars destruens particolarmente spregiudicata, getta le proprie fondamenta facendo innanzitutto tabula rasa degli sclerotizzati conformismi che – come evangeliche “pietre dello scandalo” – ingombrano il campo su cui trova a muoversi il critico militante. Esso cerca, quindi, di orientarsi (all’interno di una più corposa pars construens che occupa i restanti due terzi del volume) navigando nel mare magnum della recente (e spesso poco nota, poiché “non possiede un solido retroterra istituzionale”) produzione poetica italiana contemporanea, utilizzando due categorie estetiche denominate “La belligeranza del Tramonto” e “Tra Modernismo e Post-modernismo”, e riproponendo (con opportune glosse e “aggiornamenti”) quel “Manifesto della nuova poetica metafisica” con cui Poiesis già dieci anni fa, nel 1995, aveva cercato di smuovere le acque stagnanti delle istituzioni letterarie italiane. La sopracitata pars destruens risulta suddivisa in due sezioni: “Critica del minimalismo” ed “Egemonia del conformismo”. Nella prima, Linguaglossa – partendo da una serie di argomentazioni (anche ardue) sulla scorta di filosofi quali Hegel, Heidegger, Wittgenstein, Benjamin, intorno alla crisi di rappresentabilità del mondo – inizia a “monitorare” lo status quo della poesia attuale analizzando i quattro volumi dei Nuovi poeti italiani che l’Einaudi, dal 1980 al ’95, ha redatto per pubblicizzare i versi di una ventina di giovani scrittori. Da questa variegata analisi del critico emerge sostanzialmente – con alcune rare, lodevoli eccezioni – un “nomadismo stilistico” quanto mai centrifugo e solipsistico: una serie di poetiche individualistiche e atomizzate, accomunate quasi esclusivamente dalla tendenza a “impantanarsi in una grigia prosa poetica” di pretto stampo minimalista. Un minimalismo che, predicando l’insolubilità dell’antinomia e della frattura presenti fra soggetto e mondo, sembra ritenere irrimediabilmente caduta la possibilità di una rappresentazione aperta del mondo, e si rifugia quindi “nei dettagli, nei micro-mondi del reale”, elaborando intorno al mondo (e al ruolo stesso che, nel mondo, ha l’arte) “una visione parziale e limitante”, affatto contemplativa, debole e neutrale. Un problema generalizzato e cruciale che – come afferma polemicamente Linguaglossa – “non sembra risolubile con un riformismo moderato all’interno delle poetiche del minimalismo: occorre piuttosto una ristrutturazione della visione, occorre porre su un piano più alto tutta la costruzione dell’oggetto artistico, nonché la funzione gnoseologica della poesia”. Nella seconda sezione di questa pars destruens, l’autore bacchetta con felice causticità poeti maggiormente noti quali Biancamaria Frabotta, Vivian Lamarque, Jolanda Insana (con tono talvolta ironicamente divertito, come quando cita – al fianco dei loro versi “posticci” – quelli più genuini del proprio figlioletto di otto anni, o quando disquisisce dei loro banali e vacui “truismi” con la propria colf filippina sino ad esasperarne il paziente buon senso), e ridimensiona la fama di autori di taglio anche più elevato – ma che gli paiono altrettanto conformisti – come Andrea Zanzotto (la cui poesia “pende sul piano inclinato della propria incomunicabilità, del proprio esser superflua con la consapevolezza ed il compiacimento di esserlo”), Edoardo Sanguineti (il cui versificare produce talvolta una banalità “sontuosamente intabarrata” da effetti che si rivolgono “unicamente alla scatola acustica delle trombe di Eustachio”), Maria Luisa Spaziani (che appare minata da una “innata, costitutiva incapacità di affrontare l’elaborazione di una poesia sorgiva o pensante”). Sfuggono tuttavia al maglio del critico – come rari pezzi unici che, anziché essere schiacciati, vengono levigati e accuditi dalla passione dei suoi colpi – alcuni poeti “di straordinaria densità intellettuale” come Dante Maffìa, Maria Rosaria Madonna (affettuosamente ricordata a due anni dalla scomparsa), Roberto Bertoldo, Giuseppe Pedota: autori “forclusi nel forcipe del conformismo e del minimalismo”, nei cui versi “baluginano e sferragliano le metafore della decomposizione di un’epoca” che appare sempre più avviluppata da un clima di torpido e dilagante epigonismo. Nella pars construens della sua raccolta, Linguaglossa apre finalmente il suo grandangolo per guadagnare uno sguardo a 360° sul vasto e frastagliato panorama poetico italiano contemporaneo, e fornirne quindi una tempestiva e sismografica (ma mai caotica) recensione critica. Venticinque gli autori compresi sotto il titolo “La belligeranza del Tramonto”, più di cento quelli inclusi nella sfera “Tra Modernismo e Post-modernismo”; solo cinque (tra cui Cesare Ruffato, commentato qui per le sue innovative produzioni dialettali) i poeti accomunati sotto la dizione “L’Antimodernismo”. Tra i “belligeranti” mi piace citare il giovane critico e poeta Sandro Montalto, poeta dalle “doti non comuni di affabulatore”, il quale si muove sulla linea di un crepuscolarismo intriso di humour nero e nutrito da “un sarcasmo linguisticamente molto scaltrito”. Tra i numerosi “post-modernisti” vorrei fare almeno i nomi di Andrea de Palchi – considerato “forse l’unico poeta espressionista puro degli ultimi trent’anni”, il cui stile eccentrico può essere letto come una “reazione rabbiosa, ringhiante, disincantata e appassionata al dilagante conformismo del dibattito letterario italiano” – e quelli di Lidia Are Caverni, Giuseppina Luongo Bartolini e Domenico Cara: tre autori che Scorpione letterario, nel suo primo numero, ha avuto il piacere di ospitare con alcuni inediti. Queste, dunque, le variegate “nuove proposte” che Linguaglossa avanza presso i lettori, invitandoli con raro acume ermeneutico e una mai doma tensione etica ad entrare in fecondo dialogo con le poetiche contemporanee. Poiché – come egli stesso chiarisce – “il punto fondamentale è una ristrutturazione dell’etica del poeta e una ristrutturazione del patto che lo lega al suo pubblico”. La poesia, infatti, non è mai questione “privata”: nella sua essenza è sempre un fatto sociale, nasce da una comunità. È per questo – ribadisce l’autore – che dobbiamo sforzarci di assumere un progetto comune orientato al futuro, uscendo dalle panie del nostro ristretto e opaco presente (in cui dominano il “pensiero debole” di tanta filosofia e la “poesia debole” di tanta letteratura) per “tornare a pensare in grande” e scoprire le voci davvero autentiche della nostra epoca. |
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