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– Come ai vecchi tempi? O come i discotecaioli? – chiede Settimio nell’incrociarmi proprio sulla porta del bar del tiglio alle sei di mattina. Vigile giurato per tanti anni, ora libero, Settimio Prestato un nottambulo che del caffè all’alba nel bar ha fatto la sua abitudine tra i brontolii e le assuefazioni della moglie, i mugugni (– Ma cosa vai girando… Ci svegli all’ultimo sonno… –) dei figli. La sua battuta tiene insieme il passato di noi giovani negli anni sessanta e il presente dei giovani d’oggi, entrambi lontani da noi e da lui, che incontriamo insieme ad altri nelle ricorrenze (…esimo della maturità, …esimo della laurea, ritorno di chi ha lavorato fuori, pensionamento, ecc.), nelle manifestazioni politiche e sindacali, nelle iniziative culturali, ossia spesso. Sorrido per quel neologismo: – L’una e l’altra cosa. Aspetto Gigi
che sta tirando fuori la macchina dal garage. È nato, alle due, il secondo
figlio di Antonio. Andiamo a conoscerlo. In quei ‘vecchi tempi’ vi era stato anche il rinnovo del Bar del tiglio: il bar del caffè prima del rientro a scuola o all’università nel pomeriggio, della colletta per le cento lire di canzoni di Mina, di Endrigo, di Gilbert Bécaud, di Aznavour e il suo Il faut savoir (ma i balli incantati sui tre minuti di Pètite fleur di Sidney Béchet, chi li scorderà? Chi scorderà l’emozione dei primi rockers americani, la scoperta di Star dust?), il bar di una sola consumazione per una sosta anche di due-tre ore, il bar dei diplomi, delle lauree e dei compleanni, degli “sgarraticci” (chiuse nei cappotti per paura di essere sorprese da chi ci pensava in classe). A turno compravamo il giornale, curiosi di presente e smaniosi di commenti, e stendevamo sul tavolino del bar il poco che sapevamo di politica, di filosofia, di letteratura, di operai su cui ci aggiornava Piero, dipendente di un laboratorio tessile, studi interrotti per necessità familiari, corsi serali. Cambio di nome, dunque, Bar Moderno, metri in più (da una cantinetta attigua), arredamento in acciaio e formica, plafoniere a muro o sospese al centro della stanza, luminosità soffuse negli angoli, vernice fresca alle pareti e al soffitto su cui Velardo e Meo avevano espresso il loro talento di Pittori Maiuscoli in una sequenza osannata da tutti e vituperata (nemmeno un buon viso a pittura copiata!) dai loro professori del corso di magistero all’istituto d’arte. Era avvenuto a locale chiuso il parto artistico, protratto per diverse notti, dopo un bel piatto di tagliatelle al ragù nell’osteria di Jole. Ispirati, i pittori, dalla Divina Commedia declamata, calcando sui personaggi infernali, da Settimio: quattro pareti di figure geometriche regolari o sghembe, sovrapposte, intricate, uniche, colorate… Picasso e Braque e Klee e Mondrian, cubismo e astrattismo e chissà quali altre reminiscenze ed emulazioni. Non fu più nostro, quel luogo-spazio, quando proprio Settimio si rifiutò di
starci, per sdegno verso Daniela, la bellissima trasferitasi da Ca’ Foscari,
ricca, distaccata e sensuale, la quale, dopo quattro mesi di intense vicinanze,
durante il veglione di carnevale – orchestra di Bruno Martino –, lo aveva
piantato. Ancora stralunato di sofferenza,
Settimio se ne uscì con la notizia che, a F., il caffè costava quarantacinque
lire e non cinquanta. Cambiammo bar. Su motorini quarantotto e vespe, passando
per strade di campagna – fuori dalle palette della polizia – prendemmo
l’abitudine di andare velocemente a F. Mi rimetto nel circolo dei ricordi comuni. Nonostante le malinconie e gli scorni, le attese non sempre colmate, le speranze spesso deluse, qualche “no” imposto da fuori e trasgredito con senso di liberazione o interiorizzato e trasgredito con senso di colpa, e alcuni “sì” avari e stiracchiati, ci sembrava che un domani esistesse nell’Italia e nel mondo, per noi e per chi sarebbe venuto dopo di noi, preparato dai genitori (“la fabbrica o un diploma sono l’avvenire”), sostenuto da un contesto (“sciopero? è l’ora di un grosso sciopero… Sì, …no, …ma, …”; “…le prossime elezioni, vedrai…”; “…qualcosa si muove tra Unione Sovietica e Stati Uniti”; “…Giovanni XXIII fa sperare…”; “…decolonizzazione…”; “…lavoro, salari, scuola media unica, obbligatoria fino a 14 anni, in previsione presalario all’università, …”), pesato nei rapporti interpersonali (“…emancipazione della donna: ma che ne sai tu che sei un uomo, anche un po’ retrogrado. Direi, meglio, liberazione…”). Un avvenire strappato
alla povertà con i denti dello studio o tinteggiato dalla gioventù che non
demorde fino a che non viene morsa e ingoiata voracemente dalla vita che
incalza. Andarsene? Adesso ai giovani, ma anche
ai genitori, la cosa non va giù, a meno che non si tratti di viaggi, di vacanze.
Settimio e la moglie vorrebbero il figlio ancora in famiglia con tutto quel che
accade intorno e in giro… Mi inserisco nelle sue considerazioni. …Eravamo capaci di distinguere i colori, le linee, i punti, le intenzioni. Sapevamo fare progetti pur nelle difficoltà e nonostante gli impedimenti strutturali. Era più semplice scegliere, decidere, avere atteggiamenti chiari anche in politica, nei gusti e… in quei mari solcati… con noi dentro barche capienti e dal vento in poppa. Oggi, come può raccapezzarsi un giovane, tra mille messaggi e nessun messaggio, tra atrocità esibite e spinte regressive, tra la società che appare in remissione priva di punti fermi, e le libertà più apparenti che reali, più indotte che conquistate? O forse ogni generazione si illude di aver vissuto il meglio prima e si inganna nel vedere un peggio nella sua contemporaneità? L’illusione del passato colpisce a tradimento nella svolta tra la giovinezza e la maturità e mette sottosopra la rifrazione del futuro. Seneca e Leopardi scorrono nella mia mente e li tiro fuori a supporto del dialogo. Settimio elude
il mio interrogativo: – Be’, nelle cose grosse, orientarsi non è così
impossibile, se i giovani ci mettono la testa: godersi la vita sì, ma un lavoro
ben pagato è un lavoro ben pagato, la guerra è guerra, per esempio, e la pace è
pace. Non ci si può sbagliare. Come non si può non capire dove possano o
potrebbero portare, invece, le vie della politica, della mediazione, il lavoro
per tutti. …Poi, è vero che siamo grandi, ma ci siamo anche noi, ancora… Tempo incerto ma tiepido, primavera nei campi attorno alla superstrada. Poco traffico nella nostra corsia. Gigi esagera con l’acceleratore – la macchina nuova! – ed io lo freno, freno l’entusiasmo per una cosa che alla fin fine è solo un mezzo, pericoloso per giunta. Parliamo di questo nipote appena nato,
Marcello. (Nome della consuocera, mentre la prima, Paola, ha il nome di mio
padre. La scelta dei nomi, spiraglio di continuità, ci ha fatto molto piacere).
Siamo preoccupati perché Nilde ha avuto qualche complicazione durante il parto
ed il bambino ne ha risentito. «Non molto, non tanto, appena qualche défaillance
cardiaca…»: la voce bassa di Antonio, stanotte alle due, ci ha detto una verità
dimezzata? Mio marito mi
interrompe: – L’anno prossimo, in pensione anch’io, ci si potrà organizzare,
aiutarli, …anche Carla…, anche se Carla, senza figli ancora, lassù, tra la neve,
ha meno bisogno o magari non chiede niente, orgogliosa com’è… La freddezza di Carla, che è la necessità di staccarsi dal suo amore per noi, per il padre soprattutto, è il costante rimorso e rimpianto mio e di Gigi. Da tempo, da quando è uscita dall’infanzia, insufficienti sempre, noi, in quei conflitti. Ancora con questa spina, a sessanta anni. Sessant’anni… Uno in più Gigi, due in meno io… Fidanzamento appassionato e divertito, poi matrimonio, tutti e due insegnanti, discreta armonia, una certa dedizione, amichevole confidenza, sensibile autonomia, sopportazione sbuffante di una me irruenta ed esplosiva, un po’ per aria e un po’ rigida, di un lui serafico, razionale ma imprevedibile e troppo attaccato alla politica, …che fremeva e freme, il cibo in bocca, per un caffè al Moderno e una partita a carte all’osteria (la “Jole”, trasformata in baretto). Un’unione senza incisioni secche, benché sia stata attraversata da frenesie: una mia sbandata, controllata per la verità, e priva di conseguenze (la sofferenza che avvertivo in Gigi, in tutto il suo corpo, nel suo sesso, ha agito da deterrente sul trasporto, non lieve, verso un collega), e una sua storia, da lui sempre negata o depistata, con Daniela turista d’estate. – Una storia?! Storie! Niente. Ti giuro, niente. Un’amica. È anche meno brillante di quando era giovane. Sfiorita, un piccolo fiore sfiorito… – Rideva e mi abbracciava: – Tu, sei sempre tu. – Ahi, la tenerezza interessata che vuole compensi tutti indiretti, la deminutio che afferma. Oppure Daniela copriva altri incontri? L’ho supposto. Ne sono stata quasi sicura, ma la certezza non l’ho mai avuta né l’ho voluta, abile lui a sfuggire alla chiarezza che io pretendevo vis à vis e non su indagine. L’ho tenuto “più da presso” – me ne uscivo con l’ironia, ma il tono letterario rivelava paure e gelosie. Passarono, la mia e la sua fibrillazione, lasciando un non consumato calore, l’interesse comune per la polis, lo scambio su tutto anche furente e l’accettazione delle oscurità come rispetto. Poggiavamo sulla consonanza nell’educazione alla libertà e alla responsabilità di Antonio e Carla, nell’uso degli stipendi e dei risparmi, nelle incombenze quotidiane – divise abbastanza se non proprio a metà –, negli spicchi di tempo libero reciprocamente accordati. Guardo Gigi. È assorto. È attento alla strada, sicuro, vigoroso nei gesti ma
misurato. Lucido. Sta bene. Sto bene, nonostante che il mio cuore si sia messo
tre mesi fa a ticchettare senza regole. Stiamo bene, insieme. Spesso il
desiderio (forte il suo; più attenuato, da liberare ogni volta da una sottile,
recente, guaina il mio) si fa vivo e ci ritroviamo, senza preavvisi, su baci che
non finiscono come pare che, al contrario, accada a coppie in su d’età. Suggerisco di fermarci per un altro caffè. |
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